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Aspettatemi, ritornerò

Il più vecchio andava per i trentacinque anni, il più giovane ne aveva venti. La moneta volò per aria, da una parte c'era scritto morte, dall'altra vita. Uscì morte. Erano contadini, artigiani, muratori, commessi, pasticcieri, commercianti, c'era un professore di lettere, c'era un perito agrario, c'era un albergatore, c'era un medico, c'era un pompiere, c'era un fotografo di roba d'arte. Erano settantasette italiani di modeste pretese e d'infinita pazienza precipitati nel peggior mattatoio della Seconda guerra mondiale: Stalingrado. Spettatori del dramma più fosco vissuto da un milione di uomini pagarono un conto che a loro non competeva. Appartenevano a due autoreparti, il 127º e il 248º, più un oculista con il suo assistente sanitario, più un ricco borghese con il gusto dell'avventura.

A inizio dell'ottobre '42 circa 220 mila soldati italiani sono schierati sulle rive del medio Don. Compongono l'ARMIR - acronimo di Armata Italiana in Russia - guidato dal generale Italo Gariboldi, che ha servito in Africa senza particolari benemerenze. Gran parte di essi sono giunti tra giugno e agosto per rinforzare il contingente inviato da Mussolini un anno prima, allorché il duce aveva chiesto a un Hitler perplesso il favore di schierare alcune divisioni del Regio Esercito accanto ai camerati tedeschi. Hitler non nutriva una grande stima dei nostri militari, soprattutto dei comandanti, forse influenzato dal drastico giudizio di Rommel ("I soldati sono leoni, gli ufficiali salsicce, lo stato maggiore letame"). Inoltre nel giugno del '41 il Fuhrer riteneva, non a torto, che Mussolini avrebbe dovuto concentrare i propri sforzi in Africa per consentire a Rommel di entrare ad Alessandria, conquistare l'Egitto e impadronirsi del fondamentale petrolio medio orientale.
Ma Mussolini non aveva ceduto. A suo giudizio l'invasione dell'URSS (Unione Republiche Socialiste Sovietiche) - scattata il 22 giugno 1941, nome in codice Operazione Barbarossa - sarebbe stata una cavalcata trionfale. E lui continuava a essere ossessionato da un presenzialismo militaresco che gli consentisse di raccogliere i massimi benefici al tavolo della pace. Un'idea tanto fissa quanto sbagliata, che l'aveva già indotto a entrare in guerra nel 1940 pronunciando la frase più cinica del XX secolo ("Ho bisogno di un migliaio di morti per sedermi al tavolo della pace"). Di conseguenza dal luglio '41 dietro le motorizzate divisioni tedesche arrancavano i fanti della Pasubio, della Torino, della 3a divisione celere Principe Amedeo duca d'Aosta, chiamata sbrigativamente Celere, e le camicie nere del gruppo Tagliamento. Sulle loro teste volavano gli 82 aerei, divisi tra caccia, ricognizione e trasporti, che nei giorni del dolore, dicembre '42-gennaio '43, nessuno vedrà: il ghiaccio, infatti, impedirà la chiusura del tettuccio, i piloti proveranno a decollare con le tute termiche, ma a -50º non c'è tuta termica che basti.
La Pasubio, la Torino, la Celere, il gruppo Tagliamento, l'aviazione e un pugno di mas (motoscafi anti sommergibili) vengono denominati CSIR (Corpo di Spedizione Italiano in Russia): sono in tutto 62 mila uomini. Li comanda il generale Giovanni Messe, che è subentrato al collega Francesco Zingales, bloccato a Vienna da un'infezione post operatoria. Giungono nella zona operativa assieme alla katiuscia. E' un diminuitivo di nome proprio (Caterinetta), ha dato il titolo a una popolare canzone d'amore ("Katiuscia venne alla riva / sull'argine più alto. / Venne a cantare una canzone / per l'uomo che amava, / per l'uomo che le aveva scritto una lettera…"), ora indica l'ultimo ritrovato dell'inventiva russa: un lanciarazzi a 12 o 18 canne, di grande mobilità, capace di scatenare un abisso di fuoco. I tedeschi lo chiamano l'organo di Stalin e gli contrappongono il Nebelwerfer (letteralmente "lancianebbia" per le nuvole di fumo che solleva). Alla katiuscia ben presto si accoppierà il vaniusci, lanciarazzi da 30 centimetri. L'inventore di simili gingilli, Andrej Kostilov, verrà premiato da Stalin in persona con 150.000 rubli.
Negli spazi sconfinati dell'Unione Sovietica - una definizione che agli occhi provinciali del regime fascista sa di comunismo, di ebraismo, di modernismo - è una gara contro il tempo. Le colonne corazzate della Wermacht arrivano a macinare fino a settanta chilometri al giorno nella logorante corsa per piegare l'Armata Rossa prima che l'autunno si presenti, che il fango s'impadronisca delle strade, che il gelo si stenda sulle pianure. Gli italiani seguono come possono, quasi sempre per via ordinaria, che significa a piedi. Fanno eccezione gli squadroni di cavalleria e i bersaglieri della Celere a volte muniti di bicicletta. Con questa divisione trotterellano anche 60 presunti carri armati. Si tratta degli L3, le famose scatole di sardina da 3 tonnellate armate di una semplice mitragliatrice, che già hanno sortito un esito disastroso in Africa. In pratica sono poco più di un sidecar blindato e denunciano pure problemi di accensione e di manutenzione. Quei pochi L3 che giungono in battaglia devono vedersela con il più gigantesco parco carri del conflitto. Ai T26B dell'inizio, gingilli comunque da 10 tonnellate, si affiancano il micidiale T34, da 26 a 30 tonnellate, e i mostruosi Klim Voroscilov, in gergo KV1 e KV2, da 43 a 68 tonnellate. E dire che a perforare la corazza delle nostre scatole da sardina bastano i proiettili dei fucili calibro 20 in dotazione alla fanteria sovietica.
Le altre due divisioni di Messe, la Pasubio e la Torino, sono invece definite, senz'alcuna ironia, "autrotrasportabili": se ci fossero gli autocarri, i soldati sarebbero pronti a salirvi sopra. Chi l'avrebbe mai detto. Ma di autocarri ce ne sono soltanto 1050 - diversi provenienti dall'Africa con le gomme lisce, la verniciatura color sabbia, sprovvisti di catena - e possono caricare a mala pena gli effettivi di una sola divisione. Assieme ad altri 400 veicoli (ambulanze, autofficine, motocicli, carri soccorso) compongono il 2º Autoraggruppamento d'armata. Autieri e meccanici sono abituati a lavorare in condizioni di estremo disagio, le piste sovietiche, però, costituiscono un massacrante banco di prova. L'integrità e la resa dei Fiat 626, dei Bianchi Miles, degli OM vengono messe ogni giorno a dura prova.
Durante l'estate '41 i problemi si dissolvono nell'avanzata irresistibile della Wermacht. La Pasubio del generale Vittorio Giovannelli si comporta bene sulle rive del Bug e a Jasnaia Poljana, la piccola patria di Tolstoi. Poi giunge l'autunno. Il Blitzkrieg ("guerra lampo") s'impantana nel fango, diventa guerra di trinceramenti, di postazioni. Sul Dnjepr i genieri italiani conquistano l'ammirazione degli sprezzanti camerati allestendo ponti sotto il tiro dell'artiglieria avversaria. A Gorlowka e a Nikitowka i fanti del colonnello Epifanio Chiaramonti, 80º della Pasubio, vanno a morire in silenzio per salvaguardare il grosso del CSIR. In attesa dell'inverno il morale si fa ondivago, l'illusione mussoliniana della cavalcata trionfale svanisce. Dicembre è inzuppato dal sangue italiano. La sconosciuta cittadina di Chazepetovka entra nei bollettini e di conseguenza nelle case della Penisola. Berlino ha appena annunciato la tregua invernale, ma i fanti dell'82º della Torino ci devono mettere la carne e il cuore per strappare a un reggimento scelto delle guardie rosse questo agglomerato di capannoni e di isbe, che nella foschia dei -25º non appare tanto diverso dagli altri. Eppure i sapientoni con le stellette lo definiscono strategico e fondamentale. Ma strategico e fondamentale per che cosa?
Sei mesi di campagna hanno già spiegato che la popolazione, i cui figli corrono ad arruolarsi nell'Armata Rossa, non ha intenzione di mollare; che i plotoni si lanciano in assalti suicidi non perché obbligati dai commissari politici, ma perché sospinti dalla voglia di cacciare gl'invasori; che l'Urss non è lo sprovveduto Paese descritto dalla propaganda. Una relazione del servizio informazioni della Wermacht asserisce che la speranza più concreta di un successo consiste nel trasformare l'invasione in una nuova guerra civile tra sovietici. Una simile manovra politica comporterebbe, però, un diverso approccio militare. E invece la tendenza è di considerare potenziali nemici anche gli ucraini che applaudono e lanciano fiori. La repressione indiscriminata resta l'unico sistema adottato dall'alto comando germanico.
Superato il panorama idilliaco delle pianure ecco comparire i maestosi complessi industriali. Il cielo si trasforma in una coltre grigiastra, le nubi si mescolano con il fumo delle ciminiere. Raggiunta Stalino, un importante snodo ferroviario, i nostri soldati stupiscono nello scoprire una catena di montaggio che si prolunga fino a Rykowo: sono settanta chilometri di fabbrica. dai depositi di minerali agli altiforni, dalla lavorazione parziale alla fusione, al montaggio. A Stalino si comincia con il ferro, a Rykowo si finisce con i cannoni anticarro pronti all'uso. Adesso sono macerie ancora calde. Al momento di abbandonarli, i russi hanno fatto saltare con il tritolo gli stabilimenti. E' la vecchia tattica della terra bruciata che centotrent'anni prima ha sfiancato Napoleone. In quel 1812 gli italiani arruolati nella Grande Armata francese sono morti a bizzeffe e a coloro che hanno frequentato le scuole superiori, che ne hanno letto sui libri di storia corre un brivido lungo la schiena e non certo per il gelo dei campi ormai imbiancati. Allora fu il leggendario Generale Inverno a sterminare i componenti dell'esercito multinazionale di Bonaparte, sarà così anche stavolta?
Le crudezze dell'Ostfront segnano più i tedeschi che gli italiani. Aumentano i casi di suicidio. Nella circolare distribuita ai soldati delle 'Panzerdivision' è scritto che "il suicidio in combattimento equivale alla diserzione". I turni di guardia rappresentano l'occasione migliore per farla finita con sofferenze non solo fisiche. Alcuni soldati, che sostengono di appartenere a una cellula comunista dell'esercito, fanno girare un manifestino nel quale si incitano i commilitoni a sollevarsi per il bene della Germania. Anthony Beevor nel suo capolavoro, 'Stalingrado', trascrive il foglietto trovato addosso al cadavere di un granatiere: "Natale quest'anno non avrà luogo per i seguenti motivi: Giuseppe è stato richiamato alle armi; Maria si è arruolata nella Croce Rossa; il Bambino Gesù è stato mandato con altri bambini in campagna per evitare i bombardamenti; i Tre Magi non riescono a ottenere i visti perché non possono presentare la prova di essere ariani; non ci sarà la stella cometa a causa dell'oscuramento; i pastori sono stati mandati a fare la guardia e gli angeli sono diventati centralinisti. E' rimasto solo l'asinello, ma non si può fare Natale soltanto con un asinello".
Il 19 gennaio 1942 un bollettino dello Stavka (il comando supremo di Mosca) annuncia che nel togliere gli stivali ai prigionieri tedeschi sono venuti via anche i piedi. Sei giorni più tardi nel diario che tiene durante la sua permanenza a Parigi in qualità di ufficiale della Wermacht, Ernst Junger - fra i più grandi scrittori tedeschi del XX secolo, molto discusso per una velata simpatia verso il nazismo - annota: "… Prima di spegnere la luce, come sempre lettura della Bibbia; sono arrivato alla fine dei libri di Mosè. Vi lessi la maledizione terribile che mi ricordò la Russia: 'Il cielo che sta sopra il tuo capo sarà di bronzo e la terra sotto i tuoi piedi di ferro'".

Ora che ci siamo installati nel bacino industriale del Donetz cominciamo a comprendere di essere finiti in un pasticcio. Noi siamo i valenti artigiani di sempre costretti a misurarci con la tecnologia. Il fucile che ci accompagna, il vetusto modello '91, lo dimostra. Sicuro, affidabile, preciso, tuttavia spara sei colpi in un minuto, i tiratori provetti riescono a tirarne perfino otto. Rimangono un niente al cospetto del parabellum esibito dai rossi. E' un mitra tozzo dal caricatore a tamburo, capace di sgranare 75 colpi. Abbiamo imparato a chiamarlo Pepescià dalla pronuncia della sigla PPSH (Pistolet Pulimiot Shpagin, "pistola mitragliatrice Shpagin). Che sia d'incerta precisione appare un dettaglio trascurabile quando ci si affronta a pochi metri di distanza e lì la differenza tra un caricatore da 6 e uno da 75 si avverte. Eccome se si avverte. Gli unici a non avvertirlo sono gli alti gradi al sicuro e al caldo dentro i comodi uffici di Roma. Nelle circolari lo definiscono sprezzantemente "un annaffiatoio". Questa differenza non la coglie nemmeno Mussolini, il cui sguardo s'ingolosisce al miraggio del petrolio. Ai ragazzi del CSIR non resta che industriarsi, scavare trincee, alzare parapetti e sperare di poter trascorrere un Natale tranquillo. Nossignori. Il 25 a Nowo Orlowka, a Ivanowski, a Rassypnaia tre divisioni di fanteria, tre di cavalleria e un mazzo di unità speciali si fanno sotto. Le camicie nere del console Nicchiarelli e i bersaglieri del 3º resistono magnificamente. Dei blindati e dei cannoni pesanti del 49º Korps, promessi alla vigilia, per ore e ore non c'è traccia. Si palesano quasi all'imbrunire, però hanno scarsa voglia di rischiare. Messe fa arretrare il fronte e prepara il contrattacco. Scatta all'alba. Appoggiati dai carri armati germanici, bersaglieri e fanti ricacciano il nemico, guadagnano qualche chilometro, salvano Stalino, il vero obiettivo degli assalitori. Sul terreno rimangono due mila morti sovietici, milleduecento prigionieri, ventiquattro cannoni da 76, quasi un centinaio tra mitragliatrici, mortai, cannoncini. I complimenti e le felicitazioni di Vittorio Emanuele III, di Mussolini, di Cavallero (il capo di stato maggiore generale) sommergono le prime, timide rimostranze sull'equipaggiamento. I farsetti a maglia, i passamontagna, le panciere, i calzini e le maglie di lana autarchica, l'ingombrante pastrano non servono con temperature che oscillano sui -30º. Ma il vero problema appaiono gli stivaletti con i 72 chiodi regolamentari: proprio dai chiodi entra l'acqua, che causa il congelamento dei piedi.
I sergenti e i tenenti della prima linea lanciano l'allarme: abbiamo più congelati che morti. Messe trasmette a Roma l'urgenza di avere a disposizione calzari come i valenki usati dai contadini della steppa. Sono stivali di feltro in pezzo unico, che proteggono alla perfezione gli arti inferiori e la cui ampia suola consente alle dita di allargarsi senza problemi. In tal modo sarebbe possibile liberarsi delle preistoriche fasce mollettiere, che a quelle temperature rappresentano un ulteriore ostacolo alla circolazione del sangue. Per motivi misteriosi, tra i quali non è difficile individuare qualche congrua tangente d'accompagnamento alle commesse dell'esercito, una Nazione famosa per l'abilità dei suoi scarpai non riesce a fabbricare i valenki. Bisogna rivolgersi alla Romania del dittatore Antonescu. I rumeni accettano di consegnarci un migliaio di esemplari. Benché all'inizio dell'estate abbia nominato Mussolini caporale onorario della Guardia di Ferro, l'equivalente della Milizia fascista, Antonescu rifiuta le tonnellate di margarina con cui vorremmo pagarlo e pretende dollari. I forzieri della Banca d'Italia ne dispongono ancora e finalmente Messe riceve i valenki. Vengono destinati ai reparti dell'avanguardia e delle missioni speciali. Servono per i gruppi tattici che dal 21 gennaio '42 danno una mano alle divisioni di von Mackensen e di von Kleist nel contenere una robusta offensiva sovietica.
Nei rigori dell'inverno scopriamo e apprezziamo l'isba (termine composto dal sostantivo is, "ghiaccio", e dal verbo banen, "costruire": letteralmente vuol dire costruire contro il ghiaccio). E' una povera abitazione, sovente fatta di sterco e di paglia, a pianta quadrata o rettangolare. Racchiude tre o quattro locali, il piano è sopraelevato di un metro rispetto alla terra. Le pareti dello spessore di 15-20 centimetri sono addobbate dai disegni dei bambini, da cianfrusaglie, dalle foto dell'intero casato e a volte pure da foto acquistate nel misero mercato comunale. La luce arriva da finestre con doppi vetri non apribili, i cui scuri esterni sono manovrabili dall'interno. La stanza principale, residenza abituale della famiglia, è quella con la stufa più grande. Serve da soggiorno, da cucina, da salotto; d'inverno anche da camera da letto. I posti più ambiti sono sopra la stufa e di solito vengono riservati agli anziani e ai bimbi. La temperatura costante si mantiene tra i 18º e i 20º anche quando fuori scende a -40º. Sette-otto isbe formano una fattoria (ferma), cento un paese. Attorno sorgono piccoli poderi circondati da staccionate di legno: sono fiorenti colture di girasoli, i cui semi vengono masticati in continuazione dai contadini. Hanno un alto valore nutritivo. I nostri soldati se ne accorgeranno durante la ritirata di dicembre-gennaio allorché una manciata di quei semi in tasca garantirà un altro giorno di marcia verso l'ignoto. Li masticano, secondo antica consuetudine, i vecchi contadini ucraini, che ci aprono le porte delle loro isbe nelle sere sempre più buie e più fredde. Rimangono poche ore di luce, il tramonto s'inizia alle 15, in mezz'ora è notte.
Con la primavera crescono le incomprensioni fra i camerati. Gli italiani chiedono baracche, equipaggiamento, cucine da campo. Si litiga sulla convenzione stipulata dai due stati maggiori nel giugno precedente, alla vigilia del nostro intervento. L'intendenza germanica aveva garantito i viveri della razione tedesca, compresi carne e farina, sulla base dei quantitativi previsti dalla razione italiana. L'impegno riguardava anche il fieno, la legna da ardere e il carburante. Ma già in settembre una nota della Wermacht è risultata un bel ceffone in piena faccia: "Il soldato tedesco non ha diritto a una razione fissa. Egli consuma ciò che la Patria e l'Intendenza gli possono procurare di volta in volta. Le distribuzioni sono, quindi, fatte in relazione alla disponibilità. Le truppe traggono dal Paese tutto ciò che possono. In dipendenza di tale principio, l'Intendenza tedesca non garantisce la disponibilità costante di tutti i generi costituenti la razione italiana". E non sono arrivati nemmeno gli altri rifornimenti - avena, medicinali, apparati chirurgici, materiali di costruzione - promessi nell'euforia dell'invasione. Per noi il contraccolpo è stato pesante anche a livello psicologico. Messe e i suoi generali - Giovannelli, Marazzani, comandante della Celere, e Manzi, comandante della Torino - sanno che non siamo attrezzati per una guerra moderna, soprattutto per una guerra moderna a quattromila chilometri da casa. Il bluff di Mussolini si palesa in tutta la sua tragica avventatezza.
I tedeschi sono esterrefatti dalla modestia del nostro corpo di spedizione, dalla pretesa dei nostri comandi di farsi belli caricando l'intendenza sulle spalle dell'alleato. Il cattivo funzionamento dei veicoli del CSIR rappresenta l'ultima delusione per il quartier generale di von Rustedt, comandande del Gruppo armate Sud, alle prese con il problema della logistica, che cresce a ogni chilometro di avanzata. Proprio von Rustedt ha compilato una classifica delle truppe straniere ai suoi ordini: i rumeni vengono definiti al di là di ogni descrizione, gli italiani gente spaventosa, gli ungheresi vogliosi di tornare a casa. Riaggalla, dunque, il malanimo nei confronti del mal sopportato comprimario con le pezze al culo. Fra i generali dei gruppi d'armata si diffonde il retropensiero che le attuali difficoltà siano dovute ai ritardi accumulati nell'invasione a causa dell'attacco contro la Grecia, nell'aprile '41, per toglierci dalle pesti. Diventiamo i soliti mangiaspaghetti lamentosi. Il dito viene puntato contro la nostra deficitaria preparazione militare. Il rilievo è fondato, ma riguarda tutti i fronti, non soltanto questo orientale. Le avverse condizioni climatiche ingigantiscono i limiti di tenuta dei reparti, l'insussistenza delle strutture, la scadente organizzazione gerarchica. La Russia denuda le smargiassate di Mussolini.
Quanti sono arrivati con l'entusiasmo di partecipare a un'impresa epocale, l'abbattimento del comunismo, si ritrovano impastoiati in una snervante e pericolosa attività di guarnigione. Speranzosi di partecipare alla salvezza della civiltà cristiana minacciata dai baffoni di Stalin i nostri soldati restano, viceversa, ai margini delle travolgenti avanzate e dei grandi entusiasmi. Affrontano mille problemi quotidiani, si misurano costantemente con le insormontabili insufficienze dell'esercito. Giorno dopo giorno siamo costretti a imparare che è meno arduo procurarsi qualcosa d'attinente alla guerra, a esempio una mitragliatrice, che qualcosa d'attinente ai nostri costumi primordiali come un pezzo di sapone, un secchio d'acqua pulita, un po' di legna da ardere. Veniamo trascinati in un'infida schermaglia di posizione: si muore per colpi che piovono all'improvviso. Il nemico storico, il male assoluto da sconfiggere assume spesso le sembianze di bambini malnutriti e supplichevoli, di donne e di vecchi che si sforzano di sopravvivere in mezzo agli stenti, di fanciulli d'ambo i sessi che rischiano la fucilazione pur di venire a curiosare in prima linea. Dal fondo dell'anima balenano le domande più insidiose, quelle che mettono in discussione vent'anni di propaganda fascista. La voglia del focolare domestico diventa incontenibile. Stringe il cuore la visita ai piccoli e improvvisati cimiteri , dove poveri croci recano nomi e cognomi che ci appartengono: tanti Giuseppe, Emilio, Salvatore, Paolo venuti a morire in questo Grande Paese ostico e sconosciuto. Ciascuno sa che di essi entro pochi mesi rimarranno soltanto le lacrime nelle case lontane e si chiede se non sarà anche il proprio destino.
Messe accusa Berlino di non tener fede alle promesse più facili: la garanzia dei rifornimenti. Le consegne di cibo e specialmente di carburante avvengono con il contagocce. A differenza degli automezzi tedeschi alimentati con la benzina, quelli italiani vanno spesso a nafta. Rimediarla è abbastanza complicato. E quando finalmente i motori sono accesi, ci si mettono le buche stradali e il gelo a mandarli in panne assieme ai telai. Messe, allora, propone l'impiego dei treni, gli rispondono picche. Lo stesso fanno da Roma allorché disegna il quadro, precario, della situazione e asserisce di non poter garantire il conseguimento degli obiettivi assegnati. Ricordasse il generale - è il senso del messaggio di Mussolini - che il Corpo dipende dalla Wermacht. Quindi, zitto e mosca. Ma proprio Mosca svanisce all'orizzonte grazie alla risolutezza del suo nuovo capo di stato maggiore, il quarantaseienne Georgij Zukov, messosi in luce nel '39 durante gli scontri al confine con la Manciuria.
Nonostante le batoste rimediate, nonostante le centinaia di divisioni perse, nonostante le fette di territorio lasciate al nemico, l'orso sovietico non ha ceduto. L'industria militare, spostata nei territori sicuri al di là degli Urali, dimostra di possedere ritmi e qualità. Dall'aprile del '42 la produzione bellica sopravanza quella del Terzo Reich. Tutto oramai gioca a favore del regime comunista: dagli spazi al tempo. Il conflitto ha cambiato faccia: l'ingresso degli Stati Uniti lo ha ampliato riaccendendo le speranze della Gran Bretagna e dell'Urss, le uniche nazioni europee che non si sono arrese al nazismo. Hitler fissa gli obiettivi della prossima offensiva estiva, nome in codice Blu: il grano dell'Ucraina, il bacino industriale del Donetz, il petrolio del Caucaso. Il Fuhrer conta di piegare l'Unione Sovietica sottraendole ogni fonte di approvvigionamento, sogna di minacciare l'impero britannico in Asia, parla di puntate in Iraq e Iran. Gli preme soprattutto bloccare quest'ultimo confine, giacché da lì transitano i primi aiuti anglo-americani.
Nella primavera del '42 Hitler necessita di rimpinguare lo schieramento. A dicembre ha liquidato il comandante in capo von Brauchitsch e ha sfilato l'esercito dalle mani della nobiltà prussiana, ridotta d'ora in avanti a manichino del caporale austriaco. D'altronde anche Stalin si è autonominato commissario della Difesa e comandante supremo delle forze armate. Il CSIR, accettato nove mesi prima per le insistenze del Duce, è considerato di colpo insufficiente. Per le sue visionarie strategie il Fuhrer pretende divisioni su divisioni. Malgrado in Africa le grandi unità di Rommel e di Bastico siano in crisi nera, Mussolini è incapace di resistergli. All'inizio pensa di mandare venti divisioni. Congettura di formarle negando al Terzo Reich i 150 mila operai richiesti in aggiunta ai 200 mila che già lavorano in Germania. L'opposizione del re e le traballanti sorti della guerra lo riportano in terra. Decide comunque di muovere le truppe migliori: gli alpini, dei quali finora è stato impiegato il battaglione Monte Cervino. Il solo che ha il coraggio di opporsi al duce è Messe. In Italia per un periodo di riposo, il generale scopre che è stato deciso l'invio di un'intera armata. I suoi appelli a non commettere un così grave errore cadono nel vuoto. Nessuno degli alti papaveri ha voglia di questionare con Mussolini. Il capo di stato maggiore, Cavallero, invita Messe a soprassedere. Ma il generale non si arrende: ha compreso l'impossibilità di giungere a una vittoria, conosce i limiti tecnici e di preparazione dell'esercito, ha visto le scarpe dei soldati aprirsi come fiori al contatto con la steppa ghiacciata, in una relazione ha scritto che i cannoni contro carro fanno il solletico ai T34. Il 2 giugno Messe ottiene il sospirato incontro con Mussolini. In due drammatici colloqui al mattino e al pomeriggio lo esorta a essere prudente, a valutare i rischi di questa seconda spedizione, a non privarsi degli alpini, l'ultimo Corpo che gli resta per difendere il suolo patrio in caso di problemi. "Caro Messe - è la replica del duce - al tavolo della pace i 200.000 dell'ARMIR peseranno molto più dei 60.000 del CSIR". Ancora questo benedetto, o maledetto, tavolo della pace. Quante famiglie dovranno piangere per una simile ossessione.
A maggio del '42 ogni particolare sulla carta è definito. Dall'ARMIR viene figliata l'8a armata. Comprende il XXXV corpo d'armata, l'ex CSIR con le sue divisioni Pasubio, Torino, Celere, affidato a Messe; il II corpo d'armata con la Sforzesca, la Ravenna, la Cosseria affidato a Giovanni Zangheri; il Corpo d'armata alpino, composto da Julia, Tridentina, Cuneense, affidato a Gabriele Nasci. In autunno si aggiungerà un'altra divisione di fanteria, la Vicenza. A corredo raggruppamenti di artiglieria, guastatori, carabinieri, camicie bere, battaglioni della sussistenza, una compagnia chimica, ciò che avanza degli aerei inviati nel '41. L'esercito compie uno sforzo notevole per armare al meglio gli uomini di Gariboldi, ma rimediamo egualmente la figura dei parenti poveri. La dotazione complessiva di fucili mitragliatori, 2850, è pari a quella di un solo reggimento sovietico. L'enorme divario nei carri armati è acuito dall'invio di trenta L6, cioè blindati da sei tonnellate, e da diciannove semoventi con cannone da 47/32. Il peggio, tuttavia, si registra nell'artiglieria: cannoni antiquati dalla gittata limitata, spesso al traino dei cavalli se non sospinti a braccia. Diversi sono preda bellica del '18, alcuni addirittura risalgono alla conquista della Libia. Il pezzo controcarro più diffuso è l'agile e multiuso 47/32, che nasce come cannoncino da montagna. Le sue granate, definite E/P, effetto penetrazione, possono bucare corazze di trenta millimetri, ma i T34 le hanno da trentacinque millimetri in su. A meno di non centrare la feritoia della torretta o di non colpire i cingoli laterali, l'E/P scivola sullo scafo come una saponetta. Ai rassegnati artiglieri non resta che ribattezzare le proprie granate effetto pernacchia. Le iniziali, E/P, rimangono le stesse, ciò che muta è la sostanza.
Prima di partire per il fronte la Vicenza, già di per sé in condizioni assai precarie essendo formata da giovanissimi arruolati con la cartolina precetto, da richiamati ultra trentenni e dagli scarti delle altre unità, perde il reggimento di artiglieria. La divisione sbarca in Ucraina a novembre, trova una temperatura oscillante fra -5º e -15º, ma soltanto un soldato su tre ha il pastrano di lana autarchica, gli altri battono i denti dentro la mitica divisa di panno grigio-verde. I patemi sofferti dal CSIR per l'insufficiente equipaggiamento non hanno sortito alcuna miglioria. L'intendenza non ha il modo di risolverli. Siamo vestiti per il clima mediterraneo e difettano i materiali, il tempo e la voglia per cambiare. Dunque continuano a latitare i cappotti imbottiti, le tute mimetiche, i copricapi di pelliccia e soprattutto calzature affidabili al posto dei micidiali stivaletti chiodati e degli scarponcelli sfoggiati dagli alpini. Chiediamo ad Antonescu se può soddisfare un'altra ordinazione di valenki, ma dollari in cassa non ce ne sono più e i rumeni si sottraggono con la scusa di dover rifornire il proprio contingente. I valenki portati da Messe quale modello per i ciabattini dell'esercito sono finiti in un cassetto del ministero onde non addensare nubi sull'ultima commessa di trecentomila calzari per l'ARMIR.
Il II corpo d'armata, gli alpini e i reparti aggregati raggiungono i 167 mila effettivi. Con il CSIR (o XXXV corpo d'armata) si arriva a 229 mila unità. Ma la cifra è teorica. Le truppe di Messe hanno già subito notevoli perdite nella battaglia di Natale '41 e nell'offensiva del maggio '42 condotta nella zona di Izjum. In quel frangente l'avanzata della Pasubio e della Torino è risultata determinante per liberare le divisioni tedesche insaccate da marzo. Tra quelli della Torino che non si perdono un assalto e un'incursione campeggia un comandante di squadra dell'81º reggimento eletto dai suoi stessi compagni. E' un soldato semplice di oltre cinquant'anni, con i capelli bianchi. Apre bocca solo per impartire ordini secchi, che non necessitano di essere ripetuti. Gli altri della squadra ubbidiscono all'unisono e non se ne devono mai pentire. A stento riescono ad appurare che si chiama Troili, che ha un figlio pilota di caccia (avrà la medaglia d'oro), che ha frequentato l'Accademia e la Scuola di Guerra. Eh sì: Troili fino alla primavera del '40 è stato un colonnello, addetto militare presso l'ambasciata di Parigi. Si è dissociato dal colpo di pugnale tirato da Mussolini alle spalle dei francesi. L9o hanno degradato. In Unione Sovietica è venuto da volontario a far il proprio dovere e lo farà fino al sacrificio estremo.
Da giugno le divisioni di Messe stanno arroccate nei capisaldi. I sovietici si sono fatti aggressivi, hanno smesso di scappare, appena possono prendono l'iniziativa. Nella marcia d'avvicinamento all'immenso Don i bersaglieri della Celere passano un brutto quarto d'ora a Serafimovic: cavarsi dai guai costa un migliaio di morti. L'arrivo a spizzichi e bocconi in luglio dei reggimenti di Zangheri coincide con il consolidamento della prima linea sul medio Don. Ma i battaglioni della Celere, della Pasubio, della Torino sono ridotti a non più di quattrocento effettivi e di rinforzi dall'Italia non ne sono previsti. Nell'ultima decade di agosto il fronte entra in fibrillazione. La Sforzesca cede di brutto e mette a repentaglio l'intero schieramento. Il nemico dispiega un gran numero di battaglioni e di blindati: le previsioni sull'Armata Rotta redatte da Gehlen, lo spione di Hitler, presunto esperto di Unione Sovietica, si rivelano fasulle. Dalle industrie tedesche escono 500 carri armati al mese, da quelle sovietiche 1800 al mese nella prima metà del '42, 2200 nella seconda. Anche la produzione di aerei conosce un bel balzo: da 1600 a 1900 al mese. Sono numeri davanti ai quali Hitler adotta il più facile e scriteriato degli atteggiamenti: si rifiuta di crederli veri, li respinge. Saranno i suoi soldati e assieme a loro i soldati italiani, rumeni, ungheresi e spagnoli (è arrivata una legione di volontari) a provarne la veridicità.
Il 28 luglio Stalin emana l'Ordine n. 227 dall'esplicativo titolo "Non più un passo indietro". E' la pedissequa ripetizione dell'Ordine n. 270 emanato nell'agosto '41: "… Chiunque abbassa la sua bandiera durante la battaglia e si arrende dovrà essere considerato come un vile disertore, la cui famiglia verrà arrestata perché ha nel suo ambito una persona che non ha tenuto fede a un giuramento e che ha tradito la madrepatria. Questi disertori saranno fucilati sul posto. Chiunque cada in un accerchiamento… e chiunque preferisca arrendersi dovrà essere eliminato a ogni costo, mentre la sua famiglia verrà privata di tutti i benefici dell'assistenza dello Stato". Stavolta l'Ordine funziona. Molte delle nuove reclute provengono dalle scuole del partito e la loro abnegazione serve a trascinare i pavidi, i riottosi. L'attacco alla Sforzesca è condotto da truppe fresche, bene addestrate e assai motivate. Gli italiani vengono colti di sorpresa: diversi sono a mollo nel fiume. Gariboldi sfrutta il rovescio per mettere sotto cattiva luce Messe. A battersi al meglio sono ancora le camicie nere della Tagliamento e il Savoia cavalleria del colonnello Bettoni. A Isbuscenskij, il 24 agosto, i cavalleggeri si congedano dalla Storia con una carica a sciabole sguainate. Travolgono due battaglioni siberiani, fanno 150 morti e altrettanti feriti. Per noi perdite limitate: il maggiore Litta Modignani, il maggiore Manusardi, che va all'assalto con il solo frustino, il capitano Abba e altri trenta cavalieri. Montanelli scriverà: "L'esercito italiano sapeva fare bene le cose che non servivano più e male quelle che sarebbero state necessarie alla guerra che stava combattendo".
Nel giudizio dell'Oberkommando di Berlino il bene più prezioso dell'8a armata sono i 25 mila quadrupedi e gli oltre 21 mila veicoli su due, tre e quattro ruote. La logistica della Wermacht fatica a tenere il passo preteso da Hitler. Lo scartamento delle ferrovie sovietiche rende difficoltoso l'impiego di motrici e vagoni germanici. Spesso i treni hanno a disposizione un solo binario nei due sensi di traffico. Per di più è stato appena diramato l'ordine che i convogli destinati alla deportazione degli ebrei abbiano la precedenza su quelli militari con ulteriori ritardi nei rifornimenti al fronte orientale. Ne consegue che nei piani di avanzata verso la steppa quella massa di muli, di cavalli, di autocarri e di autocarrette, di moto e di tricicli appaia preziosa, nonostante l'ovvia lentezza dei quadrupedi e la scarsa affidabilità dei veicoli. Al 2º Autoraggruppamento aggregato al vecchio CSIR se ne aggiungono altri tre: il 7º, l'8º e il 10º, ai quali vanno sommati gli autoreparti pesanti dei Corpi d'armata e le sezioni dislocate presso ogni divisione. In tutto sono 16.700 automezzi. Rappresentano il campionario offerto dalla produzione nazionale più i tedeschi Opel e Borgward interamente pitturati di nero. Nel gergo dei reparti vengono sbrigativamente chiamati macchine.
Gli autieri godono fama di raccomandati, d'imboscati, di privilegiati. La loro guerra si svolge lontano dalla prima linea e, per buona parte, dai pericoli. In ogni caso non viaggiano a piedi. I fanti, i bersaglieri, gli alpini si sono dovuti sorbire marce estenuanti. Chi è giunto a Stalino ha percorso cinquecento chilometri, chi è giunto a Karkov anche mille con tappe giornaliere oscillanti fra i trenta e i quaranta chilometri. Come non invidiare gli autisti che hanno ricoperto le stesse distanze con la preoccupazione di dover ogni tanto sgranchire le gambe? I tre autoraggruppamenti sono stati trasferiti in treno fino a Jagenfort, poi hanno proseguito con i mezzi propri. Destinazione Ucraina attraverso il confine con la Cecoslovacchia e la Polonia Si sono alternate strade nere, strade gialle, strade rosse. La polvere dell'estate si è posata sui veicoli e sugli uomini. Sono state mangiate gallette da mattina a sera, ci si è ricordati di quale bene prezioso sia l'acqua. A Leopoli, città di transito da secoli in bilico tra la Polonia e l'Ucraina (oggi appartiene a quest'ultima), molti scoprono l'orrore del problema ebraico, del quale in Italia hanno visto soltanto l'inizio. Dal '38 vigono le leggi razziali. Hanno escluso gli ebrei dalla vita sociale, li hanno ridotti in miseria, li hanno esposti al capriccio di ogni impiegato statale, ma non hanno valicato l'ultimo diaframma, oltre il quale campeggia l'annientamento fisico. Il nazismo, viceversa, lo persegue da anni e dal gennaio del '42 la 'soluzione finale', lo sterminio, è diventato il programma prioritario.
Bruno Zavagli è un sottotenente di ventitré anni. Il suo incarico occupa due righe fitte di genitivi: comandante della 741a sezione del 117º autoreparto del XVIII Autogruppo pesante del 7º Autoraggruppamento pesante di Armata. Nell'appassionante testimonianza di quei mesi (Solo un pugno di neve) racconta che durante la sosta a un passaggio a livello l'attenzione generale è attratta da una palizzata di tavole. Occlude totalmente la vista, ma dietro si ode un brusio. Chi ci sarà mai? Qualche autiere si avvicina. I militari della feldgendarmerie lo aggrediscono a brutto muso, con le canne dei fucili lo ributtano, fra imprecazioni e urla, dentro gli autocarri. Sulle tavole campeggia la lettera J, jude (giudeo). Addentrandosi nel territorio ucraino la colonna incoccia un lager. Gli italiani assistono sbigottiti all'uccisione del recluso ebreo stramazzato al suolo e incapace di sollevarsi per lo sfinimento. Dall'alto della torretta la sentinella, dopo il secondo richiamo, ha puntato il fucile e sparato. La caccia all'ebreo, l'eliminazione dell'ebreo diventano tristi compagni di viaggio. Alcuni fotografano di nascosto i carri bestiame stipati di esseri umani e avviati verso i lager. Impossibile restare indifferenti. L'irrequietezza si deposita su animi in subbuglio. L'immancabile vittoria non appare più così sicura. E' sì scattata l'operazione Blu, in mezzo alle distese di girasoli la linea del fronte ha superato Jzjum, ma sino a dove bisognerà spingersi per mettere la parola fine? L'avanzata procede tra i resti delle battaglie. Elmetti sforacchiati, mitragliatrici squinternate, canne di cannone spampanate, lamiere bruciate, corpi accartocciati segnalano la progressione dei combattimenti, i centri di resistenza. A Losovaja spunta un cimitero italiano. E sono in pochi a credere che quegli sfortunati commilitoni siano caduti affinché il Bene trionfi sul Male.
E poi, possono mai rappresentare il Male queste bionde e formose ragazze dai capelli intrecciati sul capo? Questi vecchi i cui occhi domandano un pizzico di comprensione? Questi bimbetti che si producono nelle smorfie e nei sorrisi di tutti i bimbetti del mondo? E' l'incontro con un proletariato non dissimile dal nostro. Persino la fede religiosa appare la stessa, nonostante le campagne anticlericali lanciate da Stalin. La presenza dei cappellani militari induce molti ucraini a chiedere di essere battezzati o a battezzare i figli. I contadini e i braccianti arruolati nei reparti del regio esercito capiscono che pure qui si sviluppano le identiche ansie di un'esistenza legata ai prodotti della terra e quindi ai capricci del tempo. Le gallette che fanno rimpiangere la pastasciutta sono un alimento prelibato per i molti abitanti spinti dalla fame ad avvicinarsi ai veicoli dei nuovi venuti. Ci guatano dapprima con paura, indi con curiosità. No, non siamo come i tedeschi. Preferiamo il baratto alla spoliazione, il corteggiamento allo stupro, ogni donna anziana ci rammenta la mamma lontana. Quando c'installiamo in un'abitazione non buttiamo fuori i legittimi proprietari. Coinvolgiamo le nonne, le venerate 'babuske', nel piccolo commercio con l'unico bene apprezzato dai locali, le coperte di lana, che servono per procurarsi pane e soprattutto pennuti. Facciamo sfoggio di generosità distribuendo sigarette dai nomi evocativi - Milit, Macedonia, Trestelle, Africa - che i vecchi e i ragazzini delle città e dei villaggi apprezzano di gusto. Le loro papirosa, d'altronde, non hanno sapore: tabacco d'infima qualità tagliato e tagliato ancora, prima di avvolgerlo in cartaccia. Gli ucraini si appassionano così tanto al nostro fumo da offrire un pollo per sei sigarette e le uova alla pari. Vacilla persino l'indissolubile credo dei fascistissimi della Tagliamento. Taluni, con pancetta e calvizie, sono reduci della marcia su Roma, dell'anticomunismo viscerale hanno fatto un dogma, però s'indignano davanti alle stupide, feroci rappresaglie teutoniche. Hanno visto impiccare troppe ragazze e troppi anziani per non comprendere di essere scivolati nella guerra dell'odio. Hitler l'ha predisposta a tavolino annunciando la "battaglia tra due visioni del mondo in opposizione. Una battaglia d'annientamento contro commissari bolscevichi e intellighenzia comunista". I tedeschi hanno incominciato fucilando i commissari politici e i civili sospettati di essere militari, ebrei o partigiani; i russi hanno proseguito tagliando la gola ai tedeschi che si sono arresi. Da entrambe le parti è ormai invalsa l'usanza di non prendere prigionieri. Il rispetto della convenzione di Ginevra osservato dal CSIR e dall'ARMIR è una goccia nel mare di violenza indiscriminata. Solo che così si sono ricompattati attorno a Stalin popoli che fino al 20 giugno del '41 l'odiavano. Gli ucraini, specialmente quelli dell'ovest, avevano accolto bene le truppe della Wermacht nel ricordo degli otto milioni di morti per fame prodotti, a metà degli anni Trenta, dalle draconiane disposizioni del Piccolo Padre. Il pugno di ferro delle autorità naziste ha fatto in pochi mesi il vuoto: con i nuovi padroni sono rimasti soltanto i più fanatici tra i cosacchi. Alcuni li abbiamo inglobati anche noi. Formano gli Squadroni del Don comandati dal maggiore Ranieri Campello.

Diversi tra gli autieri appartengono a una classe, quella del '13, che il caso ha esposto a una crudele staffetta di guerre. Hanno cominciato, appena assolto il servizio di leva, con l'invasione dell'Etiopia nel '36, hanno proseguito con la guerra civile in Spagna e con l'annessione dell'Albania, hanno concluso con il secondo conflitto mondiale. Chi ha accumulato anche sei-sette anni ininterrotti di servizio militare sfoga il proprio malumore in un ironico 'Testamento spirituale della classe 1913', che gira molto tra gli autisti alle prese con le distanze infinite della steppa: "Dopo lunga e penosa vita sopportata con rassegnazione passava a miglior vita l'animo giovane e puro della CLASSE 1913 lasciando nel più profondo dolore la moglie BRANDA, la madre SVEGLIA, la vedova RITIRATA, il figlio MOSCHETTO, la figlia fedelissima GAVETTA, la sorella BORRACCIA, la nuora PRIGIONE e la zia RAMAZZA, che annunziano la triste fine sperando pace e libertà agli ufficiali e sottufficiali, graduati e soldati della classe 1914 eredi universali dei suoi beni. I funerali avranno luogo il … alle ore 12 partendo dalla caserma e si percorrerà la via del congedo, passando per via della borghesia, proseguirà per la via della libertà, indi si giungerà alla stazione. Dopo una breve visita di controllo, il corteo verrà sciolto inviandosi ognuno alla propria città. Si ringraziano tutte le CAPPELLE che parteciperanno alla solenne cerimonia. E per nostro desiderio vi preghiamo di non inviare fiori, bensì bottiglie di BARBERA, MOSCATO, ALEATICO, LAMBRUSCO, SANGIOVESE, FRASCATI e per finire vino speciale CHIANTI. E ora vi preghiamo di unirvi a noi nell'inviare una preghiera alla defunta CLASSE 1914".
Tra agosto e settembre gli autieri si sistemano nelle retrovie, a Rykovo, a Millerovo, a Voroscilovgrad. A Rykovo permangono i segni degli scontri: case diroccate, crateri nelle strade, la grande fabbrica annerita e parzialmente distrutta dalle esplosioni. I sopravvissuti, però, sono allegri ed espansivi. I bersaglieri vi dimorano da dieci mesi e molti civili conoscono qualche parola d'italiano. La usano per attaccare bottone, anche le ragazze sono socievoli. Ci s'incontra sotto le acacie dei viali che assieme alla frescura trasmettono un senso di pace. Non sembra neppure di stare in guerra. Che cosa chiedere di meglio? I più intraprendenti dei nostri si fanno spedire da casa i rossetti (pomidor). Sono dozzinali, ma per fanciulle di Rykovo rappresentano una tentazione e il donatore fa un bel balzo nella classifica dei corteggiatori. Cecilia Kim, tra le scrittrici sovietiche più talentuose e perseguitate dallo stalinismo, nel suo libro 'Ricordi in Rosso' afferma che l'estate e l'autunno del '42 furono caratterizzate a Rykovo da un'improvvisa natalità e i neonati esibivano uno straordinario miscuglio di colori: capelli biondi e occhi scuri, capelli neri e occhi chiari. A interrompere grandi manovre e appassionate relazioni provvedono le improvvise partenze. Hanno riattato la ferrovia, Rykovo serve da smistamento per i rifornimenti. Tocca agli autocarri trasportare uomini e cose verso Est, verso la Russia meridionale dove l'offensiva pare essersi arenata sulla sponda sinistra del Don, al cui confronto il padre Po acquista lo spessore di un torrentello.
Anche Millerovo possiede un importante scalo ferroviario con l'aggiunta di un attrezzato ospedale, ma è un borgo campagnolo, un susseguirsi di isbe e di kolkoz. Ancora s'ignora che è stata la patria delle amazzoni (soltanto nel 2006 verranno rinvenuti i resti di una regina sepolta con arco, faretra, giavellotto, piccolo specchio di bronzo, collana e con la compagnia di sei uomini, incaricati di servirla nell'aldilà). I due principali edifici in muratura sono stati occupati da Gariboldi, che vi ha piazzato gli uffici dell'8a armata. Siamo alle spalle del fronte, tuttavia i contadini vi accorrono in frotte un po' per spiare - hanno compreso che gli italianski a differenza dei nazi non sparano a vista - un po' per barattare le ultime carabattole. E poi a Millerovo da settimane bruciano i silos del grano incendiati dai russi prima di scappare. L'odore è così forte che si sente a chilometri e chilometri. La speranza dei civili è di riuscire ad arraffare qualche chilo di chicchi abbrustoliti. Se di guardia ci sono gli italiani il miracolo può riuscire, se ci stanno i tedeschi è preferibile girare al largo. I crucchi, infatti, gestiscono un grande campo di raccolta dei prigionieri appena dietro la collina. Usano due valli comunicanti per trasferire ogni tre giorni la massa muta e rassegnata, sulla quale volteggiano divisioni di mosche. Zavagli racconta la metodica ricerca da parte di un plotone di SS dei commissari del popolo e la loro susseguente fucilazione.
A Millerovo si acquartiera il 248º reparto pesante dell'8º Autoraggruppamento. Fanno la spola con Voroscilovgrad e coprono una fetta maggiore di territorio. E' lo scotto da pagare all'esser appena giunti dall'Italia. Ma Bruno Puschiavo, che all'anagrafe fa Mariano, non dovrebbe starci. Ha quasi trentadue anni, nel '36 l'hanno richiamato per l'Etiopia. Ha fatto la guerra e due anni di deserto. Nel '39 è riuscito a ritornare: a Bologna l'attendeva Ines. Si conoscevano da bambini. Abitavano entrambi in una casa del comune chiamata 'ca' di rosch' (la casa del pattume). Papà Puschiavo faceva il ferroviere, da Padova l'avevano trasferito a Budrio prima del balzo conclusivo nella grande città, che ha stupefatto gli occhi di Bruno fanciullo. Ines è nata in Germania a Gelsenkirchen. La sua famiglia, i Visani, lavoravano nella vicina miniera di Solven. Dopo la Grande Guerra si sono stabiliti a Bologna, al primo piano della 'ca' di rosch' con i Puschiavo all'ultimo. Bruno e Ines stanno insieme dal primo sguardo. Si sono sposati nel Natale del '39. Un anno dopo è arrivato Gianni. Bruno, che prima dell'Etiopia faceva l'autista di un'impresa edile, è stato assunto alla mensa delle officine militari a Casaralta, Ines ha trovato un posto all'incartatrice della Viola, azienda di cioccolato. Malgrado la guerra incombente, è stato un bel periodo: due stipendi, acquisti senza tessera, cinema aperti, parchi affollati, un'atmosfera passabile, la convinzione che il conflitto riguardasse mondi lontani, le passeggiate in bicicletta con Gianni sul manubrio. A maggio del '42 il postino ha consegnato la cartolina precetto: servivano autieri per l'ARMIR. Alle officine di Casaralta hanno spiegato a Bruno che avrebbe avuto diritto all'esenzione lavorando in un'industria bellica. Bruno lo ha ripetuto ai sergenti dell'autoparco di Verona, dove si è presentato ed è stato subito assegnato al 248º reparto.
La pratica per l'esonero è stata istruita, ma fino alla partenza, il 6 giugno, Bruno non ha ricevuto risposta. Una partenza talmente anticipata rispetto alle previsioni che è saltata perfino la scappatina a Bologna per dare un bacio a Ines e a Gianni. Il 7 a Lubiana è saltato pure il tappo della bottiglia del brandy: addio all'amico dei momenti tristi. Tre giorni dopo aver passato il Brennero è pervenuta la nota del ministero: l'autiere Puschiavo Mariano ha diritto all'esonero in quanto lavoratore in un'industria impegnata nello sforzo bellico. Troppo tardi. Un conto era se l'autiere Puschiavo Mariano fosse stato ancora sul territorio nazionale; tutt'altro e difficile conto trovandosi oramai all'estero e quasi in zona operativa. In realtà per giungere a destinazione il convoglio ha impiegato oltre quaranta giorni, venti di treno e venti sugli autocarri per i restanti duemila chilometri, ma per sgusciarne via sarebbero occorsi dei santi in Paradiso così ammanigliati che Bruno non è stato neanche sfiorato dall'idea di cercarli. Anche il capitano Nervi, comandante del 248º, si è mostrato dispiaciuto: coraggio, vedrai che al più presto sarai a casa. La lettera del 17 luglio Bruno l'ha aperta con una nota di toccante malinconia: "Aspettare e non arrivare è una cosa da crepare…".
Voroscilovgrad è una città e anche bella. I suoi ponti attraversano il Donetz. Due li hanno costruiti a fine luglio i nostri genieri con un'abilità che ha spalancato le bocche dei tedeschi. Tempo impiegato: quattro ore l'uno. Voroscilovgrad è stata finora risparmiata dal furore ideologico dell'unno conquistatore. Continuano a svettare il monumento ai caduti della Rivoluzione d'ottobre e addirittura quello a Lenin. Di fronte al primo sopravvive pure un carro armato del '18. Sopra una terrazza campeggia il ritratto di Stalin, sforacchiato, ma bello dritto. Molti dei ragazzi italiani in divisa ne sono incuriositi, si sentono obbligati ad approfondire le vicissitudini del comunismo e dei suoi protagonisti. A Voroscilovgrad vengono sistemati gli autisti del 127º reparto. Fanno parte del 2º Autoraggruppamento, lamentano un anno abbondante di Urss sul groppone - hanno avuto già tre morti: il sergente maggiore Sergio Cartei, i soldati Corrado Capaccioli, Giuseppe Fallerini - e pensano di essere avvicendati. Lo sperano anche due ragazzoni piemontesi entrati in organico a gennaio '42, Fiorenzo Camilla ed Emanuele Patrone. Vengono da Niella Tanaro e da Priero Costa, piccoli paesi l'uno a sinistra, l'altro a destra di Ceva, che deve la notorietà all'aver dato il nome a un battaglione alpino della Cuneense. E in provincia di Cuneo siamo. Gente solida, di poche parole e di lunghi silenzi, devota ai genitori, abituata alla fame e al sudore vano su campi che bisogna convertire zolla dopo zolla, con il miraggio dello studio per migliorare la propria condizione. L'usanza, appena raggiunti i quattordici anni, è di superare le Alpi e di andare a sfamarsi in Francia. Camilla lo ha fatto nel '31 ed è diventato pasticciere. Patrone ha aspettato un po', è emigrato a ventiquattro anni nel '36 ed è diventato muratore.
A Tolone Camilla ha aggiunto alla preparazione di torte e pasticcini un piccolo commercio di lievito. Guadagnava, l'esistenza finalmente gli sorrideva. Ha conosciuto l'agiatezza, ma la proditoria aggressione dell'Italia alla Francia ha cancellato dieci anni di fatiche e di successi. Camilla si è ritrovato nel campo di concentramento di Saint Cyprien, vicino Perpignan, ha stretto amicizia con Patrone. All'inizio erano entrambi considerati nemici, dopo l'armistizio sono diventati ospiti sgraditi. E' toccato rientrare. Camilla ci ha rimesso l'intero deposito merci e i lingotti d'oro che gli hanno sequestrati alla frontiera con la vaga promessa di restituirli a guerra finita. Per l'intanto vada a servire la Patria. A Tolone Camilla ha conseguito la patente, ha imparato a guidare il furgoncino delle consegne, di conseguenza nel giugno del '41 l'hanno mandato al grosso autoparco di Firenze. Vi ha ritrovato Patrone. A inizio di novembre trasferimento a Bologna. Negli itinerari militari era l'anticamera dell'Unione Sovietica.
Camilla l'ha scritto ai genitori il 12 novembre '41: "Ci fermiamo due, tre giorni, dopo si va in direzione della Russia e io che mi credevo proprio il giorno di Natale di trovarmi con voi. Il capitano mi aveva promesso la licenza di un mese, ma tutto è andato in acqua. E' giunto l'ordine di far partire una ventina di bravi autisti e in caserma non ce n'erano molti. Non fatevi cattivo sangue, perché a me piace girare il mondo… Con me c'è anche un buon amico di Ceva, eravamo insieme nel campo di concentramento. Assieme spediremo i nostri vestiti in un pacco solo indirizzato a casa sua: Patrone Pietro, Priero Costa… Angelo (è il fratello minore, nda) come se la passa? Va sempre a studiare? Spero di sì. Lo studio serve anche in tempo di guerra. Mi auguro che continui a lavorare volentieri e che stia sempre a comando di papà e mamma. Papà spero abbia ripreso i chili persi in estate. Mamma, l'importante è che ci sia la salute. Buon Natale, buone feste. Fate conto che ci sia anch'io e così sarete più allegri. Bevete una buona bottiglia alla mia salute".
Gli autieri del 127º dormono nell'ex collegio universitario di Voroscilovgrad. Stanno dieci per camerata. Dopo tante sistemazioni precarie, appare quasi di lusso: spazio a volontà, con un po' di mestiere si recuperano letti veri. Manca solo la corrente elettrica, ma non è che sia questa gran perdita, molti non l'avevano neanche in Italia. Per Camilla e Patrone la notizia brutta è un'altra, la diffonde 'radio-steppa' e sebbene manchi l'ufficialità l'esperienza insegna che in simili casi al vento segue sempre la tempesta. Al dunque: si sussurra che i militari presenti in Unione Sovietica da prima del 31 dicembre '41 saranno rimpatriati a fine ottobre. Camilla, Patrone e gli altri partiti da Bologna sono entrati in Unione Sovietica il 3 gennaio. Possibile che per tre miseri giorni ci si giochi il rientro a casa? Non li preoccupa tanto la guerra quanto il secondo inverno da dover trascorrere in mezzo al ghiaccio, in mezzo a quei blocchi di neve che circondano Camilla nella foto inviata ai genitori per spiegare che cos'è la Russia.
Pazienza, scrivono, siamo stati sfortunati. Però aspettateci, ritorneremo.



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