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La città di cui nessuno si era curato

compra il libro on line Il 23 agosto è una domenica di sole sulle riva del Volga. Ma nei quaranta chilometri, accanto all'immenso fiume, lungo i quali si snoda la città di Stalingrado, non vi sono bagnanti. Gli uomini, le donne, i bambini dell'importante centro industriale sono assiepati negli improvvisati rifugi. Ondate di Junkers 88, di Heinkel 111, di Stuka appartenenti alla 4a flotta aerea dell'altezzoso generale Wolfram von Richthofen, cugino del famosissimo Barone Rosso della prima guerra mondiale, stanno scaricando mille tonnellate di bombe su palazzi, monumenti, acciaierie e stabilimenti. Tra un'esplosione e l'altra gli ufficiali sovietici puntano i binocoli verso ovest: lì dove cielo e steppa paiono toccarsi ecco nuvolette di polvere in avanzamento. Sono i blindati del XIV corpo corazzato del generale dalla mano monca Hans Hube. Ad affrontarli per primo è il gruppo di batterie contraeree affidate alle «pioniere» del partito comunista: sono ragazze di vent'anni con un addestramento assai approssimativo. I comandanti dei blindati quasi non credono ai loro occhi: il nemico ha mandato in prima linea soldati con le trecce svolazzanti. Ma quando le vedono indaffararsi per puntare e caricare i pezzi, viene ordinato ai panzer di avanzare a tutta velocità verso il teorico pericolo. Malgrado la buona volontà e l'ansia di rendersi utili, le improvvisate artigliere impiegano parecchio tempo a districarsi tra le numerose incombenze; i carri armati hanno oramai raggiunto la distanza utile al tiro. La mira dei puntatori germanici è eccellente, l'opposizione quasi nulla, la strage immane. L'assedio di Stalingrado è cominciato.
Tutti al momento ignorano che sarà la battaglia di svolta dell'invasione incominciata il 22 giugno 1941, tre milioni e mezzo di uomini, nome in codice Operazione Barbarossa. Nella follia di Hitler deve da un lato abbattere il regime bolscevico, ai suoi occhi l'incarnazione più diabolica dell'ebraismo; dall'altro costituire un braccio della tenaglia in grado d'impossessarsi, assieme all'altro braccio rappresentato dall'Afrika Korps di Rommel, dei giacimenti petroliferi del Medio Oriente, che tengono in piedi l'impero britannico. Per mesi è stata un'avanzata inarrestabile. Le armate dell'Urss sono state annientate, milioni e milioni di caduti e di prigionieri. La Wehrmacht in tre settimane ha invaso e oltrepassato la parte di Polonia occupata dai sovietici e la Bielorussia. Dopo la chiusura della sacca Bialystok-Novogròdec, il gruppo d'armate Centro del feldmaresciallo Fedor von Bock ha conquistato la capitale Minsk; il 16 luglio è caduta Smolensk: Mosca era a soli 300 chilometri. Hitler ha però dirottato verso Est la 2ª Armata, comandata dal generale Maximilian von Weichs e il panzergruppe 2 del generale Heinz Guderian nella speranza d'intrappolare le forze sovietiche del fronte meridionale convergenti verso Kiev. Il 30 settembre si è iniziato l'assalto alla Capitale. Stalin e gli altri massimi dirigenti sono rimasti dentro il Cremlino per guidare la resistenza.
A differenza dei progetti del Fuhrer, L'Operazione Tifone - il nome in codice della sospirata occupazione di Mosca - non si è conclusa prima che il fango ostruisse strade e rifornimenti. Malgrado le gravissime perdite subite a Vjaz'ma e a Brjansk, i sovietici in ottobre e in novembre hanno respinto i furibondi assalti del IV gruppo corazzato del generale Erich Hoepner e del V corpo d'armata di fanteria del generale Richard Ruoff. Le preziose informazioni di Richard Sorge, il comunista tedesco a capo della rete spionistica in Giappone, hanno consentito a Stalin di spostare le divisioni dalla Mongolia: l'Impero del Sol Levante aveva infatti deciso di non attaccare l'Unione Sovietica proprio per i progressi troppo lenti dei tedeschi. Di conseguenza il 5 dicembre è potuta scattare la controffensiva guidata dal nuovo capo di stato maggiore, Georgij Zukov, distintosi nel '39 durante gli scontri al confine con la Manciuria. Il 13 dicembre i tedeschi sono stati costretti ad arretrare il fronte. L'assalto a Mosca è fallito e con esso il piano di Hitler di chiudere la pratica in anticipo sull'arrivo del Generale Inverno, già abbattutosi centotrent'anni prima su Napoleone e la Grand Armèe. Anche il sangue italiano ha inzuppato la terra: i 62 mila militari del Csir (Corpo di spedizione italiano in Russia) non incontravano grande considerazione a Berlino, tuttavia a Gorlovka, a Nikitovka, a Chazepetovka i fanti della Pasubio, della Torino, della Celere, le camicie nere del gruppo Tagliamento ci hanno messo la carne e il cuore.
L'inattesa sconfitta dinanzi alle porte di Mosca ha suscitato la reazione inconsulta di Hitler. I vertici della Wermacht sono stati azzerati. Destituito il comandante in capo, il feldmaresciallo Walther von Brauchitsch: le sue funzioni sono state assunte in pratica dallo stesso Hitler. Destituiti anche i comandanti dei tre gruppi di armate: i feld marescialli Gerd von Rundstedt, Fedor von Bock e Wilhelm Ritter von Leeb. Al loro posto, i pari grado Walter von Reichenau, Guenther von Kluge e Georg von Kuechler. In questo periodo sono stati sostituiti 35 alti ufficiali: nel giudizio del Fuhrer erano colpevoli di aver ordinato ripiegamenti per risparmiare la vita dei soldati falcidiati dagli stenti, dal gelo, dalle nuove armi in dotazione al nemico (lanciarazzi a 12 e a 18 canne, i mastodontici carri armati KV1 e 2 da 50 e 68 tonnellate). Le perdite complessive sono ammontate a 350 mila tra morti, dispersi, feriti: un terzo delle perdite accusate nello stesso periodo dall'Urss.
Ma Stalin ha potuto fregarsene: possedeva ormai le forze necessarie per rovesciare la situazione. Sei mesi di campagna hanno già spiegato che la popolazione, i cui figli corrono ad arruolarsi nell'Armata Rossa, non ha intenzione di mollare; che i plotoni si lanciano in assalti suicidi non perch´ obbligati dai commissari politici, ma perch´ sospinti dalla voglia di cacciare gl'invasori; che l'Urss non è lo sprovveduto Paese descritto dalla propaganda. Una relazione del servizio informazioni della Wehrmacht ha sancito che la speranza più concreta di un successo consiste nel trasformare l'invasione in una nuova guerra civile tra sovietici. Una simile manovra politica comporterebbe, però, un diverso approccio militare. Viceversa la tendenza è di considerare potenziali nemici anche gli ucraini, che all'arrivo delle colonne della Wermacht hanno applaudito e lanciato fiori. La repressione indiscriminata resta l'unico sistema adottato dall'alto comando germanico.
Le crudezze dell'Ostfront hanno segnato i tedeschi. Sono aumentati i casi di suicidio. Nella circolare distribuita ai soldati delle Panzerdivision è stato scritto che «il suicidio in combattimento equivale alla diserzione». I turni di guardia hanno rappresentato l'occasione migliore per farla finita con sofferenze non solo fisiche. Alcuni soldati, appartenenti a una cellula comunista dell'esercito, si sono prodigati nel far girare un manifestino con cui incitavano i commilitoni a sollevarsi per il bene della Germania. Anthony Beevor nel suo capolavoro, Stalingrado trascrive il foglietto trovato addosso al cadavere di un granatiere: «Natale quest'anno non avrà luogo per i seguenti motivi: Giuseppe è stato richiamato alle armi; Maria si è arruolata nella Croce Rossa; il Bambino Gesù è stato mandato con altri bambini in campagna per evitare i bombardamenti; i Tre Magi non riescono a ottenere i visti perch´ non possono presentare la prova di essere ariani; non ci sarà la stella cometa a causa dell'oscuramento; i pastori sono stati mandati a fare la guardia e gli angeli sono diventati centralinisti. E' rimasto solo l'asinello, ma non si può fare Natale soltanto con un asinello».
Il 19 gennaio 1942 un comunicato dello Stavka (il comando supremo di Mosca) ha annunciato che nel togliere gli stivali ai prigionieri tedeschi sono venuti via anche i piedi. Nel diario che tiene durante la sua permanenza a Parigi in qualità di ufficiale della Wehrmacht, Ernst Junger - fra i più grandi scrittori tedeschi del XX secolo, molto discusso per la velata simpatia verso il nazismo - annota sotto la data 25 gennaio: «Prima di spegnere la luce, come sempre lettura della Bibbia; sono arrivato alla fine dei libri di Mosè. Vi lessi la maledizione terribile che mi ricordò la Russia: 'Il cielo che sta sopra il tuo capo sarà di bronzo e la terra sotto i tuoi piedi di ferro».
Quel mese numerose divisioni germaniche sono state imbottigliate a Cholm e a Demjansk. Soltanto il poderoso intervento della 9a armata - anche qui è saltata la testa del comandante, il generale Adolf Strauss: gli è subentrato Walter Model - ha scongiurato il disastro. A Demjansk, al centro dei monti Valdaj, sorgente del Volga, nordovest di Mosca, per settantadue giorni è stato bloccato il II corpo d'armata del conte Brockdorff-Ahlefekdt: centomila uomini e 20.000 cavalli. Durante l'assedio i trimotori Junkers 52, dipinti di bianco per mimetizzarsi, li hanno riforniti delle 65.000 tonnellate di munizioni e di vettovagliamenti necessari alla resistenza. Il salvataggio degli accerchiati ha rappresentato il trionfo della testardaggine di Hitler: aveva vietato a Brockdorff-Ahlefeldt di tentare una sortita obbligandolo ad attendere l'arrivo dei soccorsi. Sembravano i giorni del destino. Alla liberazione del II corpo d'armata si è accoppiata la distruzione nella radura Erica delle due armate sovietiche, che a inizio gennaio avevano sfondato in direzione di Leningrado. Diciassette divisioni e otto brigate intrappolate nei boschi fra Chudovo e Ljuban: per salvarle Stalin ha inviato il generale di cui si fidava maggiormente Andrej Vlasov, quarantunenne figlio di un povero agricoltore.
Grazie ai sacrifici del padre ha studiato in seminario, ma alla tonaca ha preferito la rivoluzione comunista. La sua carriera nell'Armata Rossa è stata fulminea
e assecondata dalla buona sorte. Si trovava in Cina da Chang Kai-shek durante la cruenta epurazione. Nella tarda estate del '41 ha tenuto per due mesi Kiev, poi con la 20a armata ha stoppato l'ala settentrionale tedesca nell'attacco a Mosca. Aveva il petto gremito di medaglie e la nomea d'invincibile quando è atterrato oltre il fiume Volkhov per un'impresa rivelatasi, tuttavia, impossibile. Soltanto 32.000 militari sono sopravvissuti prima di finire, stremati, nelle mani del tedesco. L'ultimo a essere catturato - consegnato dallo starosta (una via di mezzo tra il sindaco e il commissario politico) di un minuscolo villaggio, che l'aveva precauzionalmente chiuso nella legnaia -, è stato proprio Andrej Vlasov. Ma all'acclamato eroe dell'Unione Sovietica era subentrato un uomo esacerbato da ciò che aveva sofferto e da ciò che aveva visto. A suo giudizio il colpevole era uno e uno soltanto: Stalin. In estate, assieme alla prevista resa di Stalingrado il ministero della propaganda di Goebbels annuncerà che il generale Vlasov ha domandato a Hitler il favore di esser messo alla testa di un'armata di combattenti sovietici contro Stalin.

Il crollo delle temperature e la pratica impossibilità di muoversi hanno imposto il blocco dei due fronti fino all'inizio della primavera '42. Nonostante le batoste rimediate, nonostante le centinaia di divisioni perse, nonostante le fette di territorio lasciate al nemico, l'orso sovietico non ha ceduto. L'industria militare, spostata nei territori sicuri al di là degli Urali, ha dimostrato di possedere ritmi e qualità. Dall'aprile la produzione bellica ha sopravanzato quella del Terzo Reich. Entro fine anno sarà in grado di consegnare all'Armata Rossa 25 mila carri armati, 25 mila aerei, circa 30 mila pezzi di artiglieria di medio e grosso calibro. Tutto ha cominciato a giocare in favore del regime comunista: dagli spazi al tempo. Il conflitto ha cambiato faccia: l'ingresso degli Stati Uniti lo ha ampliato riaccendendo le speranze della Gran Bretagna e dell'URSS, le uniche nazioni europee che non si sono arrese al nazismo. Nella Direttiva 41 del 5 aprile Hitler ha fissato gli obiettivi della prossima offensiva estiva, nome in codice Blu: il grano dell'Ucraina, il bacino industriale del Donez, il petrolio del Caucaso. Il Fuhrer contava di piegare l'Unione Sovietica sottraendole ogni fonte di approvvigionamento, sognava di minacciare l'impero britannico in Asia, ha parlato di puntate in Iraq e Iran. Gli premeva anche bloccare quest'ultimo confine, giacch´ da lì transitano gli aiuti anglo-americani. In quest'ottica ha chiesto e ottenuto da Mussolini l'invio dell'Armir (Armata italiana in Russia), altri 160 mila uomini e il meglio della nostra artiglieria. Ma il traguardo più ambito rimane il petrolio della Persia, dell'Iraq, della penisola arabica indispensabile per poter proseguire il conflitto con qualche speranza di vittoria. Al Terzo Reich sono oramai rimasti soltanto i pozzi della Romania e con quelli non si va da alcuna parte.

L'inizio dell'offensiva, il 28 giugno nella regione di Voronez, il 30 giugno in quella del Donez, è stato soddisfacente per la Wermacht. Ancora sotto choc per il mezzo milione di uomini perso nello scriteriato attacco a Karkhov, Stalin e lo Stavka hanno commesso diversi errori d'impostazione, hanno difettato persino le comunicazioni tra quartier generali. Soltanto il tempestivo ordine di arretramento verso l'ansa del Don diramato dal Cremlino ha impedito al feldmaresciallo Maximilian von Weichs, alla testa del Gruppo d'armate A, e al suo collega Wilhelm List, alla testa del Gruppo d'armate B, di chiudere l'accerchiamento. Superato il panorama idilliaco delle pianure, sono comparsi i maestosi complessi industriali. Il cielo si è spesso trasformato in una coltre grigiastra, le nubi si sono mescolate con il fumo delle ciminiere. Raggiunta Stalino, un importante snodo ferroviario, è stata scoperta una catena di montaggio che si prolungava fino a Rykovo. Settanta chilometri di fabbriche: dai depositi di minerali agli altiforni, dalla lavorazione parziale alla fusione, al montaggio. A Stalino si cominciava con il ferro, a Rykovo si finiva con i cannoni anticarro pronti all'uso. Ormai erano macerie ancora calde. Al momento di abbandonarli, i russi hanno fatto saltare con il tritolo gli impianti.
L'avanzata è proseguita sulla steppa, ha lambito il Don. Sulla riva occidentale sono state schierate le divisioni italiane, vi si sistemeranno anche gli alpini, bench´ li abbiano inseriti nell'armata in vista di un impiego sul Caucaso. Ma quando questo tramonterà, il più temuto corpo di montagna del mondo si troverà a presidiare le rive dell'imponente fiume. D'altronde, quasi nello stesso periodo, i parà della Folgore saranno costretti a consegnare ai furieri i paracaduti per infognarsi nelle sabbie del deserto. Eppure non basta lo snaturamento degli alpini per garantire la sicurezza delle linee italiane. Al generale Gariboldi, comandante dell'Armir, è stato detto da von Weichs di non preoccuparsi: in caso di guai sarebbero arrivati i panzer. Ma di carri armati in riserva non ce n'erano e non ce ne sono. Il feldmaresciallo ha dato per scontato che la progressione dei suoi uomini fosse inarrestabile e che nessuna minaccia incombesse sulle truppe dell'Asse.
La 6a armata di Paulus e la 4a corazzata di Hoth sono state inviate a Sud per tagliare la ritirata alle divisioni del maresciallo Timoschenko e si sono allontanate sempre più dal medio Don. I generali del Terzo Reich hanno continuato a considerare vangelo la profezia di Reinhard Gehlen, il quarantenne colonnello responsabile del servizio segreto per l'Europa dell'Est: più che rossa l'Armata è rotta. Non era vero. Bench´ sterminate in maggio nella trappola per topi di Barvenkovo, le truppe sovietiche hanno acquisito solidità ed esperienza; i comandanti hanno imparato dalle disfatte a fronteggiare l'abilità del nemico. Paulus se n'è accorto il 17 luglio allorch´ le sue truppe hanno cozzato contro i reparti delle tre armate, 62a, 63a, 64a, che nelle prossime settimane gli contenderanno il terreno palmo a palmo. Al furore ideologico dei moltissimi ragazzi d'ambo i sessi provenienti dalla gioventù comunista (Komsomol) si è accoppiato il potere di morte dei reparti speciali della polizia politica (NKVD), incaricati di far rispettare a qualsiasi prezzo l'Ordine n. 227 di Stalin emanato il 28 luglio 1942 dall'esplicativo titolo: «Non più un passo indietro». E' stata la pedissequa ripetizione dell'Ordine n. 270 emanato nell'agosto 1941: «... Chiunque abbassa la sua bandiera durante la battaglia e si arrende dovrà essere considerato come un vile disertore, la cui famiglia verrà arrestata perch´ ha nel suo ambito una persona che non ha tenuto fede a un giuramento e che ha tradito la madrepatria. Questi disertori saranno fucilati sul posto. Chiunque cada in un accerchiamento... e chiunque preferisca arrendersi dovrà essere eliminato a ogni costo, mentre la sua famiglia sarà privata di tutti i benefici dell'assistenza dello Stato».
Stavolta l'Ordine ha funzionato. Molte delle nuove reclute provenivano dalle scuole del partito e la loro abnegazione è servita a trascinare i pavidi, i riottosi. Il resto l'han fatto le diecimila fucilazioni dei soldati accusati di aver disertato. Dai plotoni alle divisioni è diventato quasi d'obbligo perire, ma non arretrare. Ogni chilometro di avanzata sono costate alla Wehrmacht considerevoli perdite umane e una crescente usura dei mezzi. L'obiettivo immediato era Stalingrado. E dire che nella conferenza del 1° giugno, in cui ha spiegato i piani dell'offensiva estiva, Hitler vi ha dedicato un'attenzione molto limitata: «Dovrà essere tenuta sotto controllo con l'ausilio delle armi». Significava che sarebbero state le squadriglie di bombardieri e le artiglierie a lunga gittata a intervenire contro le fabbriche di armi e le strutture del porto. Le priorità erano la conquista di Voronez e l'occupazione del Caucaso. I generali hanno trattato Stalingrado a guisa di un insignificante oggetto misterioso: probabilmente nessuno si è accorto che si trova sullo stesso parallelo di Vienna e di Parigi. Soltanto il 23 luglio hanno deciso d'impadronirsi della città una volta chiamata Tzaritzyn, in onore della zarina, cui era stato dedicato anche il fiume Tzaritza. Il nome le è stato cambiato all'inizio degli anni Venti, dopo un'importante battaglia della guerra civile. La versione ufficiale del regime comunista ha attribuito la disfatta dell'esercito controrivoluzionario del generale Denikin (i Bianchi) all'energia del quarantenne Stalin, che ora pare averla smarrita.
A spingere Hitler a occuparsi di Stalingrado è stato il convincimento che l'Operazione Blu fosse giunta a compimento: quale migliore ciliegina della città intitolata all'odiato nemico? Il Piccolo Padre ha, però, imposto allo Stavka di abolire il termine ritirata dai suoi programmi. Il dittatore georgiano ha autorizzato il ripiegamento dal Donez e dal Don, ma una volta giunti al Volga ha preteso che si pensasse soltanto a organizzare dapprima il contenimento dei «germanski», a seguire la controffensiva. A bella posta ha costituito il 12 luglio il gruppo di armate Stalingrado. All'importanza militare del complesso industriale si univa il fascino del proprio nome: il dittatore georgiano si rammentava bene di quei giorni lontani, dell'ebbrezza provata. Ha immaginato che la lontananza di Paulus dalle basi di approvvigionamento avrebbe favorito la messa in atto dei suoi propositi. Stalin conosceva i piani della Wehrmacht fin dal 18 giugno: i suoi avevano infatti messo le mani sui documenti rinvenuti addosso al cadavere di un maggiore tedesco. Tuttavia si era rifiutato di credere a quel colpo di fortuna: per quasi un mese ha ritenuto che fosse una sottile operazione di disinformazione. Solo da metà luglio è incominciata la corsa contro il tempo per favorire l'afflusso dei rinforzi e per costruire postazioni difensive verso nord, verso la lingua di terra, profonda una quarantina di chilometri, compresa fra il Don e il Volga. Per fortuna di Stalin l'impazienza e l'impreparazione - rimaneva un caporale - hanno giocato un tiro mancino a Hitler: la divisione in due del Gruppo armate Sud, lanciando quello di List verso il Caucaso e quello von Weichs verso Stalingrado, ha rallentato l'esecuzione delle direttive e diluito la potenza dell'impatto. E nessuno dei generaloni, dopo i siluramenti del gennaio precedente, ha avuto il coraggio di opporsi.
Nella continua e scavallante sfida al destino, che in altra situazione avrebbe condotto il soggetto dritto dritto in manicomio, Hitler non sopportava più obiezioni, meno che mai da quella genia di comandanti d'origine aristocratica, colpevole ai suoi occhi di non incarnare la vera anima del nazionalsocialismo. Era riesploso il latente, decennale conflitto con la casta prussiana, di cui Hitler avrebbe volentieri fatta a meno, che, però, per sua disdetta continuava a controllare l'esercito malgrado le tante epurazioni. E' così assurto a protagonista Friedrich Paulus, comandante della 6a armata con l'incarico di sbrigare la pratica Stalingrado. Il suo ritratto più calzante lo ha tracciato in Morte di un esercito Joachim Wieder, capo dell'ufficio operativo dell'VIII corpo d'armata impegnato sul Volga: «La personalità di Paulus e il suo temperamento di soldato erano stati plasmati dai lunghi anni trascorsi presso gli stati maggiori. Era un generale meticoloso e scrupoloso, dotato di eccezionali conoscenze tecniche e di grande capacità nell'espletamento degli incarichi operativi, ma gli mancavano l'esperienza e la tempra di comandante al fronte, l'ardimento e la prontezza nel prendere le decisioni del generale allenato al comando di prima linea».
Paulus nasce nell'Assia da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Suo padre, funzionario di grado intermedio, perfetto esponente della borghesia ligia al dovere e dai panorami angusti, è contabile in un riformatorio e infine capo tesoriere dell'Assia Nassau. Prevede un eguale percorso per il figlio. Il giovane Friedrich s'iscrive alla facoltà di scienze giuridiche e politiche di Marburg. L'uscire da casa gli fa scoprire che i confini dell'esistenza vanno ben al di là dei rigidi e ripetitivi ritmi paterni. Nel 1909 avanza domanda per diventare cadetto della marina imperiale. Lo respingono. L'anno dopo viene accolto con il grado di alfiere nel 111o reggimento di fanteria a Rastatt. Nel 1912 è sottotenente. I colleghi lo chiamano «il lord» per la cura nel vestirsi. Sposa una nobile romena. Durante la prima guerra mondiale è aiutante maggiore di battaglione. Riceve soltanto formalmente il comando di una compagnia del 13° reggimento. A differenza del collega Erwin Rommel, che guida la compagnia mitraglieri del 13°, il meglio di s´ Paulus lo sciorina dietro la scrivania. E' pignolo e infaticabile nel preparare piani, tattiche, strategie. In compagnia di caffè e sigarette trasforma la notte in giorno. E' lui, nel ricostituito esercito tedesco, a varare in segreto i programmi di addestramento per le prime formazioni di carri armati. A differenza della moglie e dei cognati, è un fervente nazista. Ammira la bravura di Hitler nel risollevare il morale e le sorti della Germania prostrata dalla sconfitta. Nel '39 partecipa all'invasione della Polonia da capo di stato maggiore di von Reichenau alla 6a armata. A cinquant'anni il ragazzo che si era ribellato a un destino d'impiegato d'amministrazione è un superimpiegato nella burocratica gestione di avanzate, di sacche, di rastrellamenti. Qualcuno potrebbe osservare che la natura in fondo si prende sempre la rivincita.
L'elegante e compassato Paulus va d'accordo con i grandi generali orgogliosi di sfoderare il «von» davanti al cognome, quello che a lui mancherà tutta la vita. Persino l'incazzoso von Reichenau lo tiene in conto. Assieme svolgono un buon lavoro in Polonia, in Belgio, in Francia. Forse il comandante esagera nel sottolineare i meriti del suo capo di stato maggiore, ma l'Oberkommando gli assegna la pianificazione dell'intero esercito. Paulus viene promosso vice capo di stato maggiore. Lavora nell'ufficio studi dell'operazione Barbarossa. Allo scattare dell'invasione von Reichenau lo reclama al proprio fianco. Paulus accetta, per quanto l'incarico rappresenti un'evidente retrocessione. Nel dopoguerra i suoi detrattori sosterranno che temeva di dover assumere un comando sul campo, lui che al massimo aveva guidato una compagnia. Ma quella responsabilità giunge lo stesso. Nel dicembre '41 le promozioni scatenate dal siluramento di von Brauchitsch e di von Rundstedt portano von Reichenau al Gruppo armate Sud e Paulus alla 6a armata. E' stato l'antico mentore a spianargli la strada spiegando a Hitler di non poter tenere due comandi così impegnativi e di avere un ottimo nome per la sua vecchia armata. Il Fuhrer ha stranamente ceduto, malgrado la personalità di Paulus risulti molto lontana da quelle a lui bene accette.
L'inverno del '42 tiene Paulus sulla difensiva. Deve contenere a Kharkov l'offensiva di Timoschenko. Se la cava, ma non ha più sopra di s´ la confortante protezione di von Reichenau, perito nell'atterraggio di fortuna del suo velivolo: aveva subito un infarto in volo e stavano provando a riportarlo subito a terra. Il nuovo responsabile del Gruppo armate Sud, von Bock, gradirebbe maggiore iniziativa nel contrattacco. Paulus vacilla. Si salva a scapito del suo capo di stato maggiore. Come sostituto gli impongono un ufficiale che non conosce, Arthur Schmidt, magro, la parlantina tagliente, lo sguardo opaco. Sarà il suo Jago. Al nuovo venuto spetta dedicarsi alle amate mappe del comandante, a misurare chilometri, a tirare linee, a elaborare spostamenti e soste. A differenza del superiore, Schmidt non ha i destini della famiglia a distrarlo, il suo unico scopo sono i destini della Germania interpretati al meglio da Hitler. Il successo di Barvenkovo, nel quale la sua strategia si è rivelata vincente, riporta Paulus in auge. La stampa nazista lo riempie di complimenti e nel farlo mette in risalto che si trattava di un figlio del popolo. Paulus non è nemmeno sfiorato dal sospetto che forse l'abbiano usato per ammonire i suoi venerati «von» di non esagerare nel mettere alla prova la pazienza del Fuhrer e delle masse nazionalsocialiste. A suggello giunge anche la Croce di Cavaliere accompagnata da un messaggio personale di Hitler.
A dare retta a Schmidt è stato l'inizio della fine. Secondo le affermazioni del generale, spesso incolpato di aver imposto al suo evanescente superiore il sacrificio della 6a armata nella sacca di Stalingrado, la sudditanza psicologica di Paulus nei confronti del Fuhrer si è sviluppata in occasione di tale ricompensa. Ritrovarselo al fianco nel sostenere le proprie tesi, ha spinto Paulus a considerare Hitler dotato di superiori qualità militari, non solo politiche. A cinquantadue anni il figlio del contabile ha assaporato il trionfo, la conferma di aver effettuato da giovane la scelta giusta. Forse è stato il momento in cui si è sentito maggiormente vicino all'ammirato Napoleone. Eppure avrebbe dovuto trarre qualche insegnamento dalla fallimentare campagna di Russia del grande corso, di cui con la consueta pignoleria aveva riprodotto battaglie e movimenti.

Il 19 luglio Stalin ha avvertito il comitato per la difesa di Stalingrado di prepararsi a un attacco su più lati. La fulminea caduta di Rostov sul mar d'Azov ha trasformato la città nell'ultimo avamposto prima del Caucaso e delle pianure, dove lo sguardo può viaggiare giorni e giorni senza arrivare mai. I reggimenti di Paulus e di Hoth hanno macinato chilometri e nemici. I giovanissimi coscritti dell'Armata Rossa appena arruolati e subito spediti al fronte si sono fatti massacrare piuttosto che alzare le braccia. E' avvenuta una macelleria indiscriminata: Stalin se l'è potuta concedere grazie all'inesauribile serbatoio asiatico. Sono stati coinvolti anche i cadetti diciottenni della flotta dell'Estremo Oriente, che hanno già partecipato alla difesa di Leningrado. In pochi giorni si sono dovuti assuefare all'addestramento della fanteria e al clima della steppa calmucca, definita non a caso «la fine del mondo». Li hanno guidati generali, che in virtù della giovane età hanno scansato la tremenda purga del 1937, allorch´ furono giustiziati, imprigionati, congedati 36.671 ufficiali: dei 706 alti gradi ne rimasero in attività 303; andarono sottoterra il comandante in capo, Michail Tuchacevskij, e diversi componenti dello stato maggiore. Attorno al collerico Georgij Zukov è cresciuta una nuova genia di generali. Timoschenko, ingiusto imputato dei rovesci attorno a Mosca, è stato bruscamente liquidato. Ma il suo sostituto, Gordov, si è rivelato un autentico incapace.
Per il fronte di Stalingrado la scelta è allora caduta su Eremenko, sopravvissuto alle grandi battaglie dell'autunno '41 attorno alla periferia della Capitale. Nel giudizio di Stalin ha il rilevante merito di non tener in alcun conto la vita dei propri soldati: pur di raggiungere l'obiettivo con un minuto d'anticipo, è disposto a sacrificare il triplo degli uomini necessari. Ma nelle settimane successive mostrerà di aver compreso che lungo il Volga i soldati sono più risolutivi dei fortini e si comporterà di conseguenza. Il commissario politico è un tozzo, pelato, rabbioso tribuno delle campagne, Nikita Kruscev, futuro numero uno dell'URSS, protagonista nel '56 dello svelamento dei crimini commessi da Stalin. Il comando della 64a armata, incaricata di sorreggere il fronte a ovest del Don, è toccato a Vasilij Cujkov, smanioso di un incarico dopo i trascorsi diplomatici in Cina, addetto militare presso Chang Kai-shek, e l'addestramento di reparti a Tula.
I contrattacchi intorno a Voronez hanno sì stoppato i progressi della Wermacht, tuttavia la 5a armata, nonostante l'ampia dotazione di T34, ha pagato un prezzo enorme in uomini e materiali. Per la prima volta, però, le superbe divisioni di Paulus si sono ritrovate innanzi un nemico preparato e armato bene quanto loro. I tedeschi hanno dovuto affrontare un problema fin lì sconosciuto: stoppare i carri armati. Hanno imparato che soltanto gli 88, in teoria cannoni della contraerea, riuscivano a bucare i massici scafi dei T34. Neppure le rilevanti perdite subite dalla 6a armata nell'avvicinamento ai ponti sul Don hanno, però, indotto il fuhrer a rivedere i propri piani.
Sono stati duecentomila gli abitanti impiegati nella difesa di Stalingrado. Dai quindici ai sessant'anni tutti hanno scavato fossati anticarro, eretto parapetti attorno ai depositi di carburante, partecipato all'ammasso dei beni di prima necessità. Le fanciulle del Komsomol, con la domanda retorica " vuoi difendere la madrepatria? ", sono state reclutate nelle batterie della difesa contraerea, per altro ancora prive di proiettili, e di quella controcarri: hanno affrontato una rapidissima scuola di guerra e gli esiti li avete già letti. Gli studenti delle scuole e gli operai delle fabbriche hanno avuto l'obbligo di arruolarsi nei battaglioni del popolo. Sono stati giorni, settimane durante i quali hanno dominato il sospetto e la paranoia: si poteva finire sotto processo sia per essere scappati da un villaggio, sia per non essere scappati. Eremenko ha temuto di esser preso in mezzo dalla 6a armata a ovest e dalla 4a Panzerarmee a sud-ovest. Era preoccupato da Hoth e si è fatto sorprendere da Paulus. Gli appostamenti sul Don sono stati spazzati via dall'azione combinata dei carri armati e della Luftwaffe. La 16a divisione corazzata del generale Angem e la 24a del generale von Hauenschild hanno operato la conversione su Kalac, i cui ponti sul Don rappresentano il transito obbligato per lanciarsi verso il Volga. L'8 agosto le avanguardie delle due divisioni si sono date la mano nei dintorni della cittadina. E' stata così serrata la sacca: all'interno il gruppo di armate di Stalingrado. Ovviamente nessuno lo può intuire: ma è l'ultima sacca dell'Operazione Barbarossa. Per il Terzo Reich ha preso avvio il lungo conto alla rovescia.
Il 21 agosto le avanguardie del LI corpo d'armata hanno attraversato il Don a Kalac e preparato la testa di ponte per i blindati. Cinquanta chilometri dividevano le colonne corazzate dal Volga. Il loro comandante è uno di quei generali che incutono un'inconscia soggezione a Paulus: non solo è di ascendenze patrizie, ma sfoggia anche un doppio cognome, Walther von Seydlitz-Kurzbach.
Alto, elegante, carico di gloria e di storia, von Seydlitz riassume in sè le caratteristiche più pregnanti dell'ufficiale prussiano. Nel 1757 a Rossbach, durante la guerra dei Sette Anni, un suo avo guidando la travolgente carica della cavalleria aveva donato il successo a Federico. E anche lui non scherza. In aprile quattro divisioni al suo comando hanno creato il corridoio lungo il quale è sfilato il II corpo d'armata del conte Brockdorff-Ahlefekdt insaccato a Demjansk.


Con Stalingrado quasi inerme a gittata dell'artiglieria e dei carri armati tedeschi, Stalin vieta l'evacuazione sulla riva orientale del Volga dei circa 600.000 civili che vi sono ammassati dal resto della regione; vieta la distruzione degli stabilimenti industriali; vieta il trasferimento dei macchinari. «Non un passo indietro» diventa la più feroce e insensibile legge di guerra. Pur adoperando una diversa terminologia, il sessantatreenne dittatore ha deciso che a Stalingrado dovrà essere combattuta la madre di tutte le battaglie. Lo comunica per telefono a Eremenko subito dopo aver appreso da Churchill, in visita a Mosca, che per l'apertura di un secondo fronte in Europa bisognerà aspettare almeno un anno. Quindi dovrà essere ancora l'Unione Sovietica a sopportare il peso della resistenza al nazismo.
Stalin pretende che civili e militari, affiancati nella volontà di non cedere, stupiscano il mondo. Calcola che i battaglioni di operai e di studenti abbiano una motivazione in più nel sacrificarsi dovendo proteggere le proprie famiglie. Che l'abbia stabilito per non concedere a Hitler la soddisfazione d'impadronirsi della città con il suo nome o perch´ l'istinto da vecchio guerrigliero gli ha suggerito che da lì la Storia avrebbe girato pagina, è una circostanza ininfluente. Conta che gli abitanti lo seguano. S'accende una gara al sacrificio estremo, ad azioni suicide per guadagnare un'ora, un angolo di strada, un osservatorio. Uomini e donne sono spinti dall'amore per la Patria, a volte dall'amore per il comunismo, ma soprattutto dall'umanissimo desiderio di fermare i nuovi barbari che violentano, seviziano, deturpano. Dopo le ragazze del Komsol, pure le operaie della fabbrica di cannoni Barricata Rossa vengono spedite ad azionare pezzi, dei quali nessuno ha spiegato il funzionamento. Sono macellate senza riuscire a sparare un colpo. Diventa consueto usare le armi appena costruite, siano essi fucili o T34. Sul quadrante della vita «il tempo è sangue». La frase viene pronunciata da Cujkov, sostituisce il molto più prosaico «il tempo è danaro». Costituirà l'insegna di Stalingrado.
A ovest di Kusmici, lungo la Fossa dei Tartari, la 3a divisione di fanteria motorizzata del generale Schlomer s'impossessa della stazioncina situata al chilometro 564. E' appena giunto un lunghissimo treno merci: contiene un imponente carico proveniente dagli Stati Uniti. Ha viaggiato attraverso l'oceano Atlantico, l'oceano Indiano, il golfo Persico, il mar Caspio, sul Volga fino a Stalingrado e da lì indirizzato verso le retrovie dell'Armata Rossa. A bordo dei vagoni i tedeschi trovano autocarri Ford ultimissimo modello, trattori su cingoli, due officine smontate, mine, attrezzature per il genio. E' un grande successo, in special modo per la propaganda, tuttavia nelle operazioni quotidiane la tenaglia tedesca fatica a stringersi. A nord le divisioni di Paulus sbattono contro una resistenza furibonda, a sud Hoth sconta l'aver dovuto cedere un Panzerkorps all'armata di List diretta in Caucaso. Una brillante manovra d'aggiramento consente il 29 agosto alla fanteria celere e ai carri della 4a armata corazzata di aprire una breccia di venti chilometri nel dispositivo sovietico. Il 30 agosto von Weichs telegrafa a Paulus di lanciarsi verso sud per approfittare dell'iniziativa di Hoth e schiacciare la difesa occidentale di Stalingrado: «Successo decisivo conseguito dalle unità della 4a armata corazzata offre possibilità distruzione nemico schierato sud et ovest ferrovia Stalingrado-Voroponovo-Gumrak. Necessità stabilire al più presto contatto tra due armate et penetrare successivamente nucleo cittadino».
Il 1° settembre von Weichs replica l'ordine in termini più perentori. Spiega a Paulus che è un'occasione irripetibile per impadronirsi di quella ferrovia sulla quale già viaggia il materiale spedito dagli Stati Uniti: carri armati Sherman, autocarri Ford, trattori su cingoli, jeep. Ma Paulus, la parte sinistra del volto scossa dal tic nervoso dei frangenti peggiori, non si muove. Il suo fronte nord è esposto alle ficcanti puntate dei blindati nemici ed egli teme, nel privarsi dei cinque reparti corazzati del XV corpo da scagliare verso sud, di vederselo crollare addosso. Il gusto del rischio, che manca a Paulus, ce l'ha Eremenko. Cujkov lo allerta sulla marcia inesorabile della divisione di von Hauenschild. Monta la possibilità d'insaccamento della 62a armata, addetta alla difesa della città, e della 64a. Eremenko non esita: sacrifica la munita cinta di bunker e di postazioni d'artiglieria. In tal modo, però, salva le divisioni, che si attestano ai bordi del centro abitato. In quelle ore i difensori ammontano, tra militari e civili, a 40.000 uomini. Stalin ha spedito Zukov per essere certo che nessuno si sottragga alla sua ferrea decisione di non mollare. Il dittatore insiste affinch´ le due armate in zona, la 1a Guardie e la 24a, attacchino. Zukov tergiversa, conosce l'inferiorità dei suoi reggimenti. E infatti l'offensiva si tramuta in una disfatta, però concede un po' di respiro agli esausti soldati di Eremenko. Il gravoso conto delle perdite s'annacqua nell'oceano del milione e mezzo di morti già prodotto dall'Operazione Barbarossa.
Paulus invia una nota con il numero dei prigionieri (26.500) presi, dei cannoni (350) e dei carri (830) distrutti in due settimane di assedio. Hitler freme, non gli basta. Vede il Caucaso allontanarsi e con esso la possibilità di accedere a quel petrolio che lui giudica determinante. Si accanisce allora sulla città divenuta in due settimane il simbolo della resistenza assieme alla martoriata Leningrado, accerchiata da quattordici mesi. Per le settanta nazionalità che compongono l'anima e il popolo delle repubbliche sovietiche lo scontro ha assunto il significato di una crociata. Abbattere il mostruoso invasore diventa la missione di un'intera generazione. Il romanziere Kostantin Simonov, che ama bazzicare le trincee della prima linea, compone il canto Uccidilo; Aleksej Sukov lo segue con un altro componimento dal titolo esplicito Io odio. Anna Achmatova, la regina della poesia russa, la musa delle lacrime di Leningrado, i cui versi hanno acceso il cuore di tanti, declama: " No, non ho vissuto sotto cieli stranieri / Al riparo di ali straniere / Allora sono rimasta con la mia gente / Là dove la mia gente, infelice, era ". Una sua poesia di quei giorni comincia così: «L'ora del coraggio è scoccata sull'orologio... " Sul giornale Stella Rossa appare l'appello di Ilja Ehrenburg, il grande romanziere rientrato da Parigi dopo la resa della Francia: «Non contate i giorni, non contate i chilometri. Contate solo il numero di tedeschi che avete ucciso. Uccidete i tedeschi, è la preghiera di vostra madre. Uccidete i tedeschi, è il grido del vostro cuore russo. Non esitate. Non rinunciate. Uccidete».

Eremenko viene avvisato da Krilenko, capo di stato maggiore della 62a, che il comandante dell'armata, Lopatin, giudica la situazione insostenibile e ha deciso di sgomberare Stalingrado, di spostare gli uomini sulla riva orientale del Volga. Difficile dargli torto. Con l'arrivo a sud del fiume della 4a armata corazzata di Hoth, i cannoni e i fanti di Paulus minacciano da vicino lo stesso quartier generale, situato nell'avvallamento della Tzaritza. Attorno al bunker che ospita Eremenko e Kruscev piovono bombe in continuazione. I due lo devono abbandonare. Attraversano il fiume assieme ai militari feriti, alle donne e ai bambini, ai quali Stalin ha finalmente concesso il via libera. Gli Stuka martellano anche sull'acqua. Bombardano, mitragliano, spezzonano: le loro picchiate sono annunciate dalla terrificante sirena, che ha un effetto psicologico devastante. Sui traghetti si muore come a terra, eppure in parecchi non vedono l'ora di salirvi a bordo. Ma chi lo dice a Stalin? Eremenko e Kruscev sanno che il passo indietro costerebbe la testa. E'già stato un mezzo miracolo aver ottenuto di trasferire il comando da questa parte. Oltre non si può andare. Bisogna, perciò, individuare l'irriducibile cui affibbiare la croce. La scelta è quasi obbligata: Cujkov assume la guida di quanto avanza della 62a armata. Scortato da due T34, spediti in linea senza la vernice per far prima, raggiunge la tana sotto il Mamaev Kurgan, il gigantesco tumulo funerario dei più importanti capi tartari alto 102 metri. Si trova proprio nel mezzo dell'abitato, tra l'acciaieria Ottobre Rosso e la stazione centrale, a due passi dal piccolo aeroporto. In tempo di pace il Mamaev Kurgan è stato il parco degli innamorati, ora è l'avamposto da cui ripetere a ogni ora: «Non un passo indietro».
Di passi indietro, invece, ne sono stati compiuti. Diserzioni, rese, ferite autoinferte nella speranza di guadagnare un imbarco sui traghetti: il morale dei soldati è sceso al punto più basso. I commissari politici ordinano esecuzioni su esecuzioni: alla fine saranno 13.500 i sovietici passati per le armi. Pure Cujkov impartisce draconiane disposizioni, al contempo gira tra macerie e rovine per segnalare che lui mai si arrenderà. Il generale intuisce che le immense distruzioni provocate dai bombardamenti delle squadriglie di von Richthofen costituiscano una trappola perfetta per gli attaccanti. Se ne sono accorti anche i guastatori tedeschi, che procedono con somma cautela. E questo significa perdere il vantaggio dell'enorme superiorità di cannoni e carri armati. Acquattati nei ripari più impensati i cecchini sovietici prendono a seminare morte e terrore. Divampano scontri ravvicinatissimi dove si va di bombe a mano e di pugnali. I fucili servono ai cecchini, sono predilette le armi maneggevoli: alla MP 40 della Wermacht, la pistola mitragliatrice con serbatoio da 32 cartucce, l'Armata Rossa contrappone il tozzo mitragliatore a tamburo con serbatoio da 71 cartucce. Lo chiamano Pepescià dalla pronuncia della sigla PPSH (Pistolet Pulimiot Shpagin, «pistola mitragliatrice Shpagin»).
I sovietici hanno perfezionato l'impiego dei «gruppi d'assalto», piccoli reparti dotati di diversi tipi d'armi che si danno reciproco appoggio nel contrattacco. Sono state create autentiche «zone d'annientamento»: case e piazze inzeppate di mine verso le quali vengono attirate le pattuglie tedesche. I sopravvissuti sono bersagliati dal fuoco delle mitragliatrici pesanti e dai lanciabombe controcarro. I soldati spesso s'insultano e si sfottono da un lato all'altro della strada. Capita di sentire il respiro del nemico nella stanza vicina. A differenza di Verdun, l'immondo mattatoio della prima guerra mondiale cui Stalingrado viene ormai paragonata, spesso ci si fissa pupilla contro pupilla, si annusa la puzza della paura, come scrive un granatiere. E sulla falsariga di Verdun il comando di Paulus si convince che sia possibile sfiancare l'Armata Rossa, numericamente superiore, con una battaglia di logoramento. Viceversa Zhukov, Cuikov, Emerov riescono a risparmiare reparti, che torneranno buoni nella controffensiva di novembre. Ma a decidere sull'impiego delle forze più del disegno strategico incide l'impossibilità di traghettarle sul Volga.
Il generale Dorr ricorderà: «Il momento delle operazioni su vasta scala era ormai finito: dalle grandi estensioni della steppa la guerra si era spostata nelle gole scoscese delle colline del Volga con i loro boschi e burroni e nella zona industriale di Stalingrado piena di costruzioni in ferro, cemento, pietra. Le distanze, prima misurate in chilometri, ora erano valutate in metri. La carta topografica del comando era la pianta della città. A ogni abitazione, bottega, serbatoio, stazione ferroviaria, muro, cantine o mucchio di rovine s'impegnavano scontri ancora più aspri di quelli della prima guerra mondiale con grande consumo di munizioni. La distanza fra le truppe nemiche e le nostre era minima e, malgrado l'azione concentrata dell'aviazione e dell'artiglieria, risultava impossibile aprirsi la strada nell'area dei combattimenti ravvicinati. I russi avevano il vantaggio di conoscere il terreno, erano superiori nella mimetizzazione e avevano una maggiore esperienza nel condurre individualmente operazioni dietro le barricate».
La caduta di Stalingrado non è più il frutto maturo, che a Berlino ancora immaginano. Rimane inascoltata la voce solitaria levatasi dal Gruppo armate Sud: non possiamo rifornire in maniera sufficiente gli uomini di Hoth e di Paulus, quindi occorre ripiegare fino al Donez, pena la catastrofe di tutte le unità entro l'inverno. La 4a flotta aerea non ce la fa a garantire gli approvvigionamenti ai combattenti di Stalingrado e del Caucaso. Vengono usati gli autocarri della Luftwaffe, colonne che partono fin da Voronez. Ma il mattatoio sul Volga inghiotte tutto, la sua voracità è insaziabile. Ci si ricorda, allora, degli italiani, degli oltre sedicimila veicoli dell'Armir. Eccolo qua il bene più prezioso dell'8a armata pronto alla bisogna. Gariboldi naturalmente aderisce alla richiesta di von Weichs. Per evitare cattive figure viene scelto il 7° autoraggruppamento: vi abbondano gli Opel e i Borgward, che forniscono maggiori garanzie di tenuta rispetto ai Fiat, ai Bianchi, agli OM. Il 117° autoreparto è coinvolto al completo. L'ordine piove improvviso a Rykovo. Significa lo stravolgimento delle abitudini ormai assunte. Si diffonde febbrile un passaparola intessuto di mistero e di ansia: missione segretissima, destinazione sconosciuta, prima tappa Taganrog, sul mar d'Azov, quasi dirimpetto a Rostov appena espugnata dalla Wehrmacht. Nel suo bel libro (Un mucchio di neve) l'allora tenente Bruno Zavagli scrive: «Mi sento formicolare nelle vene il desiderio di sale, del sale del nostro Tirreno; immagino già l'acqua azzurra increspata, l'aria balsamica dei pini. In una parola respiro una boccata d'aria che mi sembri arrivi dall'Italia. E non siamo ancora partiti».

Taganrog, patria di Anton Cechov, richiama alla mente la Forte dei Marmi d'inizio XX secolo: casette semplici, a un solo piano, con le soglie e i davanzali in marmo. Al posto dei pini, gli oleandri e i cipressi. Alla fine del viale, in cui gli autocarri sostano, brilla la linea luccicante del mare. Zavagli vorrebbe fare un tuffo, il capitano Mercurelli lo guarda di traverso. Peggio che se lo sfrontato tenentino fosse scappato dinanzi al nemico: ma siamo impazziti? Voi pensate al bagno quando bisogna raggiungere Stalingrado? Il nome raggruma l'ansia e il mistero della missione segretissima nella tensione di un pericolo immane e soverchiante. Gli autieri quasi niente sanno di Stalingrado e della battaglia che vi si combatte, però intuiscono che più se ne dista, meglio si vive. Gli ufficiali hanno annunziato che la sua conquista spezzerà in due l'URSS, aprirà la via del Caucaso, rappresenterà l'umiliazione definitiva dello spregiatore di preti e di santi che siede al Cremlino e le ha imposto il nome.
L'unico del reparto a risparmiarsi la gita torcibudella è il capitano Mercurelli, colto da improvviso malore. Lo sostituisce nel comando proprio Zavagli, che conosce un po' di tedesco e può intendersi con il comandante del migliaio di uomini, dei cannoni e dei cavalli, che i cento Borgward devono portare dalle parti del Volga. Sono quattrocento chilometri di steppa secca e sassosa. La spedizione viaggia alla strabiliante media di quaranta chilometri orari. Zavagli condivide la macchina con un maggiore medico austriaco. Per capirsi usano, oltre al tedesco, il francese e il latino. Il maggiore appare scettico sui proclami reboanti di Hitler. Mormora che Stalingrado è un'impresa inumana e disperata. All'imbrunire un'ora di sosta, poi il balzo finale scortati da due staffette in moto. L'alt avviene all'inizio della scarpata ferroviaria: i binari sono malconci. In lontananza il cielo è acceso da bagliori ininterrotti, come ininterrotto è il rombo diffuso nell'aria della sera. Il maggiore medico austriaco saluta con un asciutto «addio». Zavagli lo guarda incamminarsi assieme agli altri soldati, capisce che quell'uomo si avvia verso la morte per rispetto del destino, degli ordini, dei militari che a lui affidano l'illusione della salvezza. Di colpo, pure a chi l'osserva all'orizzonte, Stalingrado appare un gorgo ribollente e dai gorghi non si esce nemmeno morti. Giunge un generale con i baffi a complimentarsi: mai visti autisti più pazzi e più bravi. Il 117° autoreparto è stato il più veloce ed efficiente di tutti. La ricompensa sono cento litri di liquido scuro. Dicono che sia caffè, in ogni caso è bollente e le notti sono ormai morse dal freddo. Il ritorno ha la dolcezza del rientro nella normalità, ma sull'animo di ciascuno pesa la sensazione che qualcosa di oscuro si stia addensando.
Appena ventiquattr'ore prima la visione del mar d'Azov ha acceso la fantasia; com'è che nessuno si è entusiasmato o anche incuriosito per il Volga, il più grande fiume d'Europa?




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