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Il migliore anno della nostra vita


La benedizione iniziale è stata conferita, 25 maggio ‘59, dal quotidiano londinese Daily Mail: «L’efficienza e la prosperità del sistema produttivo italiano costituiscono un autentico miracolo economico». Persino a dispetto della deflazione, la cui vittima principale è il prezzo del vino: perde quasi il 10 per cento, da 151 a 138 lire al litro.
Dopo qualche mese la conferma del periodo magico proviene dal più importante giornale economico del mondo, il Financial Times: l’11 gennaio ‘60 assegna alla lira l’Oscar delle valute. C’è anche il sopragusto di vedere i francesi rosicare per la sconfitta del franco classificato alle spalle della nostra moneta. In agosto il preidente della Bundesbank, Karl Blessing, afferma che il miracolo economico italiano è più grande ancora di quello tedesco. Ma gli abitanti del Belpaese non hanno bisogno di questi riconoscimenti ufficiali per sapere che stanno vivendo un periodo d’oro. L’avvertono sulla pelle, lo sentono nei precordi. E meno male, dato che la televisione ignora l’economia e i giornali le riservano uno spazio assai esiguo, di solito un paio di colonne. Pochissimi quotidiani pubblicano le quotazioni di Borsa; silenzio assoluto su scalate, estromissioni, defenestrazioni, cambi di maggioranza. Cuccia, Mattioli, Sindona risultano perfetti sconosciuti. Occupa un titolino la nomina del quarantaseienne Guido Carli a governatore della Banca d’Italia in sostituzione di Donato Menichella, uno dei protagonisti della rinascita.
Siamo ancora lontani dai Paesi più industrializzati, benché nel ‘59 gli addetti siano aumentati di 480 mila unità: il reddito annuo pro capite è di 927 dollari (meno di 8 mila euro); negli Usa è di 3.221 dollari, in Svizzera di 2.213, in Svezia di 2.161, in Germania Ovest di 1.773, in Gran Bretagna di 1668, in Francia di 1.490. Tuttavia il convincimento collettivo è che sia solo questione di tempo prima di stabilizzarsi al livello dei ricchi. Dal singolare equilibrio tra frenesia e vertigine gl’italiani paiono trarre un’inesauribile spinta propulsiva. Tutti affamati di benessere, di modernità, di miglioramento e senza alcun senso di colpa. Anche la pubblicità asseconda quest’ansia di fare, di progredire. La Vendomatic suggerisce l’installazione delle macchine distributrici di caffè e di bevande «per aumentare la produttività al lavoro e per investire meglio il proprio danaro». Del calcolatore elettronico Ibm 632 è vantata « la flessibilità: può essere impiegato per la soluzione dei più disparati problemi aziendali, che richiedono operazioni di calcolo, fatturazione, contabilità clienti, fornitori, libro degli sconti, conti provvigione, calcolo di premi di assicurazione, cartelle esattoriali, ecc.».
Alla tensione morale e alla forza corale di ricostruzione, che hanno segnato gli anni dopo il conflitto mondiale, subentra una stagione, forse irripetibile, di energie, di fiducia in un progresso inarrestabile. E se Milano è la provincia più ricca, anche la più povera, Cosenza, è comunque cresciuta in dieci anni di quasi il 70 per cento. Malgrado sia elettrificata soltanto in giugno la linea ferroviaria Catania-Siracusa, da dove parte e dove arriva la «Freccia del Sud», cioè il collegamento con Milano e Torino, ci si specchia nell’«Arlecchino»: a fine agosto sostituisce l’Etr 300 da Milano a Napoli, viaggia a 180 km orari, dispone di quattro carrozze per 140 posti più quelli al bar e nei salotti belvedere. Tuttavia le nostre illusioni poggiano su ben altri pilastri: l’Ente nazionale idrocarburi di Enrico Mattei; l’Olivetti dell’ingegner Adriano, che spira improvvisamente in marzo; il Comitato nazionale per l’energia nucleare, di cui è segretario Felice Ippolito. L’Eni ha sconquassato le regole vessatorie delle grandi compagnie nella spartizione e commercializzazione del petrolio, ha assunto le vesti del protagonista. Già sospettato di finanziare la rivolta algerina, Mattei ottiene una concessione su circa 30 mila chilometri quadrati del Sahara e firma con l’Urss scambi per 200 milioni di dollari (oltre 4 miliardi di euro): da parte nostra gomma sintetica, tubi di acciaio, attrezzature per oleodotti; da parte sovietica petrolio grezzo e olio combustibile. Il settore elettronico della Olivetti, guidato dall’ingegnere di origine cinese Mario Tchou, è in fase avanzatissima: ha già ideato il primo supercomputer a transistor, l’Elea costruito in quaranta esemplari. Ippolito da alcuni anni ha promosso con il Cnen diversi progetti nel settore nucleare. Sono sorte le centrali di Latina, del Garigliano, di Trino Vercellese. L’Italia è in prima fila nella produzione di energia nucleare, dispone di parecchie competenze e di una base solidissima. Il 16 aprile Edoardo Amaldi, Carlo Castagnoli, Augusta Manfredini annunciano di aver isolato la particella subatomica «antisigma +». Il sogno di renderci indipendenti dal punto di vista energetico appare più che realizzabile. Viceversa in poco tempo Mattei, Tchou e Ippolito faranno una brutta fine: con essi svanirà la chance di entrare fra i Grandi.

La situazione internazionale denota una profonda instabilità: colpi di Stato, omicidi e suicidi di politici, tensione altissima fra Usa e Urss, Francia sull’orlo della guerra civile per la decisione del presidente De Gaulle di concedere l’indipendenza all’Algeria, costante minaccia nucleare, crescente paura che Occidente e blocco dell’Est trasformino la guerra fredda in rovente. Gli immancabili profeti di sventura etichettano il 1960 come un moderno Medio Evo. Anche da noi, fra scontri politici e incidenti di piazza con numerosi morti, non si scherza. Ci si aggiungono i veleni dell’Austria sulla presunta oppressione della minoranza di lingua tedesca in Alto Adige. Si sente, però, che lacrime, sofferenze, contrasti facciano comunque parte della crescita. «Domenica, è sempre domenica», il refrain del motivetto che conclude Il Musichiere, la trasmissione di maggior successo del periodo, racchiude il sentimento generale: per quanto la settimana possa esser stata dura, arriva il giorno della festa, della passeggiata con l’abito buono, dei pasticcini da portare a casa. Dunque, non c’è penultimatum di Kruscev o annuncio di superarma statunitense capace di rallentare la corsa in avanti. Un segnale lo dà anche il Vaticano: Giovanni XXIII nomina il primo cardinale di colore, Laurian Rugambwa vescovo di Rutabo in Tanganica, e il primo cardinale giapponese, Peter Tatsuo Doi, arcivescovo di Tokio. L’Olimpiade di Roma e l’elezione di Kennedy riempiono di speranza molto più di quanto non abbiano inquietato l’abbattimento dell’aereo spia statunitense, l’U-2, in territorio sovietico, la sfida verbale a calor bianco tra le due superpotenze. Domina la certezza di una progressione infinita, che il domani sarà più proficuo dell’oggi e il dopodomani addirittura strepitoso. Si punta, insomma, sul futuro e si dice addio «all’arida gloria» del futurismo. La Trentesima Biennale di Venezia gli imputa di aver portato alla dissoluzione della pittura e della cultura e all’esaltazione della materia in pezzi.
Non è tanto questione di soldi, bensì di positività, di ottimismo perfino ingenuo. Ci si affida a cartelli e giornali murali per combattere, specialmente in campagna, l’analfabetismo: non riescono a leggere e scrivere circa 4 milioni d’italiani, per essi viene ideata una delle leggendarie e meritevoli trasmissioni Rai, Non è mai troppo tardi. Gli stipendi si mantengono inferiori a quelli dei Paesi più sviluppati: gli operai non arrivano a 50 mila lire mensili (650 euro); gl’impiegati stanno tra le 110 e le 130 mila lire; gl’invidiati magistrati partono da 200 mila lire; tra i 20 milioni di popolazione attiva (le donne sono un quarto) galleggiano sacche notevoli di disoccupazione. Permane, tuttavia, la convinzione di una crescita inarrestabile: come non crederlo quando nel decennio gli stipendi si sono rimpinguati dell’80 per cento? I circa 7 milioni di studenti di elementari, medie, ginnasi, licei, università sono coscienti che con il diploma se la passeranno meglio dei genitori; qualora dovessero, poi, toccare la laurea, sogno proibito di gran parte delle 14 milioni di famiglie, vedrebbero spalancarsi ogni porta. Emissari dei principali gruppi industriali prenotano periti industriali, geometri e ragionieri prima ancora che conseguano la licenza. È una rivoluzione piccolo borghese, forse l’unica volta nella Storia in cui le masse precedono le élite.
Tanti agognano mettersi in proprio, lanciarsi nell’avventura, mordere la vita. L’invidia sociale per il successo altrui stimola lo spirito di emulazione: se è diventato un «padroncino» lui, perché non posso diventarlo anch’io? Il via l’ha dato l’entrata in vigore, il 1° gennaio ‘58, delle norme Cee per la riduzione graduale dei dazi tra i sei Paesi membri della comunità (Germania, Francia, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo). Gl’industriali nostrani se ne sono lagnati per mesi, tranne poi accorgersi che gli spazi aperti alle merci sono molto più numerosi di quelli che si chiudono. Le esportazioni verso i Paesi confratelli in due anni hanno toccato il 30 per cento: in gran parte arance, limoni, vini, vermut, formaggi, tessuti di qualità. Ma figurano anche i frutti della nostra inventiva, dell’innato gusto per il bello, i prodotti di un artigianato da secoli all’avanguardia. Nei sottoscala, dentro improvvisati capannoni fioriscono laboratori, maglierie, calzaturifici. Piccole aziende, dove lavorano padri, madri, figli, nipoti, cugini, si avventurano nella produzione di pasta, di mozzarelle, di formaggi, di pelati. L’avvento della plastica spinge chi confezionava scatolette di sapone in polvere a tentare l’avventura nella chimica. Cadenti dimore sul mare vengono adibite, dai pescatori che le abitano, a trattorie, a locande: basta un’azzeccata zuppa di pesce per trasformarsi in ritrovo alla moda.
Da Milano Marittima a Cesenatico, in un fazzoletto di chilometri, spuntano 4.600 alberghi-pensioni. In quelle a conduzione familiare il tutto compreso costa 600 lire (8 euro) al giorno. Il settore rende 500 miliardi l’anno (6 miliardi e mezzo di euro). Il turismo conosce un’espansione incontenibile, non più limitato agli stranieri e all’estate. Dall’autunno ‘59 la settimana lavorativa di 5 giorni, fin lì prerogativa degli ammirati bancari, è stata estesa a quasi tutte le fabbriche. Pure per operai e impiegati il fine settimana libero diventa una conquista da sfruttare al meglio. Due giorni al mare o in montagna si possono pagare in comode rate mensili. Ci apriamo al turismo estero, i nemici di quindici anni prima sono gli ospiti più graditi assieme alle loro pregiate valute. Ma poi chi sono i nemici? I tedeschi, gl’inglesi, gli americani? Cancellato il fascismo, è aggallata la nostra propensione ad andare d’accordo con tutti.
Crediamo nel frigorifero, la porta magica che si apre e illumina il cibo, nella televisione, nella lavatrice, un po’ meno nel telefono: solo all’inizio dell’anno gli apparecchi hanno superato i 3 milioni e mezzo, benché la Sip (Società italiana per l’esercizio telefonico) li dia in comodato gratuito. Le interurbane passano dal centralino, le linee sono sempre sovraccariche, servono tre quarti d’ora per avere Roma, un’ora per collegarsi dalla Sicilia alla Lombardia. A Milano, un telefono ogni 3 abitanti, protestano per i novanta minuti di attesa con Como. Si comunica ancora con le lettere; la gita fuoriporta comporta l’immediato invio della cartolina a parenti e amici: l’incombenza è spesso riservata alle donne, che si muovono con l’indirizzario nella borsetta.
La pubblicità accredita l’illusione che ogni prodotto sia accessibile. I numeri diventano impressionanti: oltre il 50 per cento delle famiglie si avvia a possedere un frigo, una tv (se ne comprano 1500 al giorno) e sarà pronta a firmare nuove cambiali per acquistare lavatrice, lavastoviglie, scaldabagno, il massimo dello chic. Il prezzo degli elettrodomestici oscilla tra le 100 e le 150 mila lire (1100-1900 euro). Proprio la cambialina, con le decine di girate a raccontare le tante mani attraverso cui è transitata, rappresenta una delle poche costanti, che rendono eguale il Settentrione al Meridione. Per fronteggiare questa marea montante di «pagherò» un lavoro non basta. Allora capita di scoprire che l’artigiano venuto di pomeriggio a effettuare la riparazione, faccia di giorno il carpentiere e di notte il custode del parcheggio. È l’inizio del sommerso, ma nessuno se ne accorge non essendo stati ancora inventati i sociologi. Ci si accorge, invece, che gli italiani denunciano, in media, un decimo dei propri redditi. La pressione fiscale del 32% viene considerata insopportabile, l’evasione è ritenuta lecita, inascoltati Catoni ne denunciano il costo economico.

All’improvviso appaiono inadeguati gli appartamenti zeppi di piccole cose di pessimo gusto, odorosi di rosolio e tabacco, di legno vecchio e borotalco. La voglia di non sfigurare con il vicino di pianerottolo, di non imbarazzare i bambini, che a scuola menano vanto di ogni acquisto, induce a radicali cambiamenti. Un discreto numero delle 13 milioni di case, quasi la metà di proprietà, conserva il gabinetto in comune nel ballatoio, al mattino file imbarazzanti davanti alla porta, di cui ogni famiglia possiede una chiave; fogli di giornale e schedine del totocalcio per pulirsi, la carta igienica è un lusso. Mancano l’acqua calda e le vasche da bagno, però l’ambizione è di procurarsi i simboli del nuovo, che non sono soltanto gli elettrodomestici. Spariscono il salotto Margherita, gli orologi a pendolo, le stufe di terracotta lucida, i monumentali divani di fine Ottocento, le cassepanche, le poltroncine di consunto taffetà, il lampadario d’ingresso in ferro battuto. Li sostituiscono arredi in acero e palissandro dai colori tenui, dalle linee semplici spesso richiamanti le parentesi graffe; s’impone il cristallo, irrompe la plastica in tante forme e dimensioni, l’estro si può scatenare con i mobiletti, con le mensole, con le intelaiature di ferro acquistabili secondo capriccio e necessità. Si può cominciare dall’armadietto a una sola anta e anta dopo anta riempire un’intera parete. Li chiamano mobili svedesi, diventano il fiore all’occhiello dei negozi Rinascente. Cambia pure la tinteggiatura delle pareti: ai colori pesanti subentrano il verde edera e il beige, nella stanza dei pargoli ci si sbizzarrisce con l’azzurro e l’arancione. Le residenze degli arricchiti si riempiono di librerie a metri in legni pregiati, sugli scaffali campeggiano libri dalle copertine spesso intonate al colore del mobile: non è previsto che il padrone di casa li prenda in mano. L’irruzione del ventilatore vanifica decenni di studio per capire quale fosse il punto più fresco della casa, quali porte, finestre, balconi bisognasse aprire per creare il filo d’aria. L’immediato refrigerio fa superare il fastidio di fogli e giornali che volano, del frastuono che costringe a urlare e sovrasta l’audio del televisore.
Gli articoli dei giornali e la pubblicità segnalano un’evoluzione anche nella scelta dei giocattoli. Alle fanciulle si regalano appartamenti in miniature dotati di mobili da spostare secondo i gusti, ai maschietti vengono proposti la Ferrari 250 Gt, che ha gareggiato al Tourist Trophy, la Fiat Abarth 850 rossa reduce da Le Mans e il fucile mitragliatore Tommy machine gun. Si suggerisce che per sviluppare l’intelligenza della prole niente sia meglio di meccano, monopoli e mattoncini Lego. Resistono trenini, cappellaci del West, revolver, Winchester, le bambole tradizionali, mentre quelle in panno lenci devono affrontare la concorrenza di Barbie. È nata negli Stati Uniti nel marzo 1959 da un’idea di Ruth Handler, la moglie di Elliot cofondatore della casa di giocattoli Mattel. Il primo esemplare indossa un costume zebrato, non esibisce ancora i mitici capelli biondi, ma li ha neri, stretti in una lunga coda di cavallo, porta gli occhiali da sole sulla testa. Il costo oscilla sulle 4.000 lire (circa 50 euro).

Non tutti sono convinti che ci sia bisogno di questi beni, soprattutto di quelli che alleviano gl’impegni delle donne. In un famoso articolo su Epoca Guido Piovene applaude «la società doviziosa» di Kenneth Galbraith e i suoi anatemi contro «un sistema economico che produce troppe cose inutili». Su L’Avanti lo scrittore Luciano Bianciardi, il sottovalutato autore de La vita agra, prende di mira «l’epidemia del sabato», che miete vittime fra le donne milanesi: si manifesta con «il tic del borsellino», cioè la mania di comprare a man bassa svuotando i supermercati. Dei milanesi viene criticato anche il Natale troppo americanizzato, dall’addobbo delle strade e dei negozi allo sfavillio di luci e luminarie, allo scambio di biglietti d’auguri e dei doni. Non resta che rientrare al paesello e commuoversi dinanzi agli zampognari con le cornamuse incaricati di suonare le nenie davanti al presepe: compenso di 50 lire più un bicchiere di vino.
Quanti possiedono denari e passione svuotano le case d’asta: le opere d’arte hanno quotazioni accessibili a più di una tasca. Da Christie’s a Londra la Giunone di Rembrandt viene aggiudicata per 85 milioni di lire (poco più di un milione di euro). Vale cioè un terzo di un ritratto del modesto Gainsborough venduto, sempre nella capitale inglese, per 260 milioni. Il grande appuntamento dell’anno è l’asta di ottobre da Sotheby, le cronache informano della presenza di alcuni emissari di compratori italiani desiderosi di rimanere nell’ombra, di non attirare l’attenzione del fisco, per altro assai blando nel rincorrere gli evasori. Passano di mano 51 tra quadri e disegni del settantanovenne Picasso, di Braque, Modigliani, Rouault. La somma complessiva è di 760 milioni (poco meno di 10 milioni di euro). Oggi si faticherebbe ad aggiudicarsi per la stessa cifra un singolo pezzo.

Mancano le informazioni, l’esperienza, la preparazione scientifica per interrogarsi sull’amianto, sui tubi dell’Eternit, sugli scempi edilizi. Nessuno vuole sprecare tempo con questioni che sembrano secondarie. La struttura della società è patriarcale; incombono regole ottocentesche contraddistinte dall’ipocrisia, dal beghinismo, da vizi privati e pubbliche virtù. Il lutto obbliga al nero e visto che un morto per famiglia ci scappa sempre, il Meridione veste quasi perennemente di scuro: dopo un anno di osservanza si possono tirare fuori dall’armadio gl’indumenti colorati, ma ricordandosi di applicare un bottone scuro a imperitura memoria. In Settentrione il così detto «lutto stretto» dura solo un mese, in seguito basterà ricordarsi di andare al cimitero il 2 novembre.
Negli istituti superiori quasi tutti i ragazzi indossano la giacca, spesso accompagnata dalla cravatta; le ragazze portano il grembiule nero. La donna è considerata un essere inferiore, eppure basta l’irrompere della ventenne Mina per scatenare la ribellione generazionale. La Chiesa opprime con gli occhiuti no ai rapporti sessuali fuori dal matrimonio, al divorzio, ai preservativi, all’aborto: l’unico antidoto sono considerati i quattrini. Chi li fa, può concedersi l’appartamento per la mantenuta, la clinica all’estero per l’interruzione delle gravidanze, in certi casi l’annullamento del vincolo coniugale da parte della Sacra Rota. Le prime della Scala, del San Carlo, del Sistina, del San Ferdinando, del Teatro dell’Opera, del Piccolo si trasformano nell’occasione per sfoggiare sia i gioielli della moglie, sia la venustà dell’amante. In tali occasioni si sprecano titoli onorifici fasulli: d’altronde, fare i soldi, o mostrare di averne, ne comporta l’attribuzione. All’improvviso, quindi, sono tutti diventati ingegneri, avvocati, dottori in umane scienze, professori. Chi detiene una laurea è obbligatoriamente perbene, soprattutto se vota Dc. Gli altri li si giudica caso per caso. Quale brivido di orrore nello scoprire che il più celebre notaio di Roma ha accettato di svolgere il tema del concorso, poi recapitato dall’avvenente fidanzata di un candidato con la complicità di un impiegato. Ciascun reprobo ha sborsato un milione e mezzo (poco meno di 20 mila euro): ci si compra un trilocale in centro. Signora mia, avrebbe detto in seguito Arbasino, di questo passo dove finiremo?
La vita è bella prima ancora che ci pensasse Benigni e grazie agli enormi passi in avanti della medicina promette di allungarsi, di toccare traguardi impensabili fino agli inizi del secolo. Eppure fa paura la vecchiaia: la si dipinge solitaria a causa dell’eclissarsi delle famiglie moderne troppo concentrate su se stesse per curarsi dei parenti. Si preconizza la crisi del sistema assistenziale. Tuttavia, la gioia di una lunga esistenza prevale su qualsiasi altra considerazione. I genitori nati tra le due guerre spiegano ai figli nati dopo la seconda guerra mondiale l’importanza di essersi liberati da tifo, vaiolo, colera, poliomelite; quale benedizione rappresenti la penicillina. Il 12,5 per cento della popolazione, un terzo di quella attiva, conta più di sessant’anni; i nati dopo il ‘45 possono sperare di vivere il doppio dei nonni (per i nati nel ‘900 la speranza di vita toccava i 43 anni) e molto di più dei genitori (per i nati nel ‘30 la speranza di vita si ferma ai 55 anni). Ci siamo anche allungati: sfioriamo il metro e 69, guadagnato un centimetro e mezzo in dieci anni. Un ristretto gruppo di fortunati (il 5,3 per cento) supera il metro e 80.
I bambini vanno a letto dopo Carosello, però hanno imparato il conteggio alla rovescia, che scandisce la messa in orbita dei missili. La sfida spaziale tra Usa e Urss avvicina il cosmo, fa toccare il cielo con un dito. Servono 14 ore per andare da Roma a New York, da Parigi ne bastano già 8, ritorno nientemeno che in 6 ore e tre quarti grazie ai venti. Gli aerei cadono a grappoli, ma il numero dei passeggeri e delle rotte raddoppia. Il desiderio di arraffare il tempo è tale da mettere in secondo piano qualsiasi rischio. In primavera l’aeroporto di Linate si apre ai voli nazionali ed europei, Malpensa viene riservata a quelli intercontinentali. In estate tocca a Fiumicino in vista delle Olimpiadi romane: esaurita la cerimonia inaugurale, emergono corruzione e imbrogli. L’altro strumento per accorciare le distanze sono le autostrade: ne possediamo già mille chilometri, tuttavia non c’è regione che non ne abbia messa in cantiere una. Le mappe del Touring tratteggiano in giallo quelle in costruzione. Vengono inaugurate la Genova-Ventimiglia, la Brescia-Verona, la Bologna-Firenze costata 750 milioni di lire (10 milioni di euro) al chilometro. Tra quattro anni sarà completata l’autostrada del Sole da Milano a Napoli. Quando ci si vorrà spingere fino a Reggio Calabria cominceranno i dolori: tangenti, ‘ndrangheta, calcestruzzo mescolato con la sabbia, costo per km lievitato a 25 milioni di euro.

Vengono prodotte più di 600 mila auto, delle quali oltre 381 mila vendute in Italia, ma 900mila aspiranti guidatori prendono la patente. Lo fanno anche alcuni sacerdoti, benché il Sinodo stabilisca che solo in caso di assoluta necessità possono condurre una vettura. Nessuno si cura dello scarso numero dei veicoli industriali, sui quali, viceversa, puntano i grandi marchi esteri e il risultato finale darà loro ragione. Spopolano le due utilitarie a guscio d’uovo della Fiat, la 500 (450 mila lire, 5.500 euro) e la 600 (625 mila lire, 7.200 euro). Per acquistare la prima servono all’incirca dieci stipendi da operaio, per la seconda quattordici. Nel libretto dei «Consigli agli utenti» in dotazione alle due vetture si può leggere: «Per evitare l’azione delle tarme sui tessuti cospargere la tappezzeria di naftalina, canfora o prodotti simili... Usare l’avvistatore acustico (il clacson, nda) e i lampi di luce non è una polizza di assicurazione contro gl’infortuni. Abusarne vi procura soltanto epiteti poco lusinghieri da parte del prossimo... Non state a inferocirvi con gli altri utenti della strada e astenetevi da ripicche con i conducenti degli altri veicoli... Ricordatevi che non occorre maggiore fatica a guidare bene di quanta ne occorra a guidare male».
La diffusione dell’auto favorisce la scampagnata fuori porta, il picnic domenicale: corposi nuclei familiari si abbuffano sorridenti e soddisfatti davanti alle tovagliette multicolore di plastica, sulle quali sono esposti cibi e pietanze, che devono riscattare i precedenti decenni di fame. A pochi metri è posteggiato il simbolo del nuovo status e dell’appena conquistata libertà di movimento. Un po’ è la paura che la rubino, un po’ è l’orgoglio di esibirla. Non avrebbe senso parcheggiare l’automobilina a 100 metri: chi saprebbe che è tua? Tra i maschietti si propaga il vezzo di passeggiare esibendo fra le mani le riconoscibili chiavi della macchina: viene considerato un formidabile aiuto nel corteggiamento del gentil sesso. Utilitaria e motoretta appaiono, tuttavia, datate. La Fiera di Milano lancia, per chi se le può permettere, le barche: a remi, a vela, a motore. Spazio anche ai motoscafi e a qualche raro esemplare di yacht.

Il 19 marzo sono benedetti 150 mila nuovi posti nella media e piccola industria. Il leggendario Prodotto Interno Lordo, che oggi ci fa così tanto disperare, festeggia il record: + 8,3 per cento, dopo che nei due anni precedenti ha segnato + 5,3 e + 6,6. Gl’investimenti crescono di oltre il 6 per cento, il reddito medio dell’8 per cento, per l’esercizio di bilancio ‘60-‘61 è previsto un deficit irrisorio: 298 miliardi di lire (meno di 4 miliardi di euro). In talune categorie specializzate le retribuzioni mensili aumentano al punto da invogliare il ritorno di emigranti dalla Germania e dalla Svizzera. Sono pochi casi, ma spingono le autorità elvetiche ad adoperarsi per offrire condizioni meno umilianti ai tanti italiani ristretti in baraccopoli da lager. Nonostante la favorevole congiuntura economica, 360 mila paisà sono obbligati a partire verso l’estero, il Canada figura sorprendentemente in testa alle preferenze. l’aveva capito in anticipo Mario Panzeri, autore del fortunatissimo motivetto Casetta in Canada. Almeno lo spazio abbonda, non come in Svizzera dove si spendono 60 franchi al mese per dormire dentro baracche gelate stipate di 27 letti, distante l’uno dall’altro 15 centimetri.
Milioni e milioni di braccianti, di contadini, di pastori salgono speranzosi sulla «Freccia del Sud» per sfuggire alla fame, alla miseria. Malgrado la Cassa del Mezzogiorno, istituita nel ‘50 con una dotazione di 1000 miliardi (17,5 miliardi di euro), il Meridione è rimasto molto indietro: in dieci anni sono diminuite la produzione industriale (dal 14,9 per cento al 14,6), l’attività terziaria (dal 23,4 per cento al 23), la parte di pertinenza del Pil (dal 23,4 per cento al 21,2). Si sono arricchite soltanto le cricche dominanti, lestissime nel mangiare a piene mani. Sulle banchine delle stazioni di Milano, di Torino, di Genova il popolo dei disperati è atteso dai reclutatori delle grandi industrie e dai caporali del lavoro nero. Un posto alla Fiat, all’Eni, all’Olivetti, alla Pirelli, alla Falck, all’Italsider, alla Snia, alla Montecatini, all’Edison, alla Borletti rende 47 mila lire al mese (600 euro), a casa non sempre si toccavano le 30 mila. Le mondine sono ferme ai tempi di Riso Amaro, il famoso film di Peppino De Santis: 12 mila lire al mese. Per parecchi significa lasciare l’era del baratto, prendere confidenza con banconote e monete. In pochissimo tempo da popolo di contadini ci trasformiamo in addetti industriali e dei servizi.
Proprio il ‘60 è l’anno del sorpasso: il 40,6 per cento lavora nell’industria, il 30,3 nei servizi, il 29,1 nell’agricoltura (nel ‘63 sarà il 14 per cento). Una simile invasione dagli aspetti selvaggi, priva di qualsiasi programmazione, ma fondamentale per i grandi profitti delle aziende, crea notevoli scompensi urbanistici e sociali. Le periferie si riempiono di tetri casermoni; in pochi mesi sorgono i quartieri dormitori, il più delle volte abusivi, sforniti all’inizio di luce elettrica, di acqua corrente, di servizi commerciali. Li chiamano Corea perché richiamano in mente gli accampamenti nei quali venivano accolti i profughi durante quella guerra. Eppure sembrano una conquista a quanti erano abituati a dormire in un unico locale con il mulo oppure si dovevano arrangiare nelle baracche o dentro grotte umide. Dopo un decennio di lotte durissime, i sindacati non si battono più contro i licenziamenti, bensì per gli aumenti, Lo certifica il mitico corsivista dell’Unità, Fortebraccio (Mario Melloni), «s’insegue il benessere del proletariato, non il malessere di lorsignori». La camicia bianca desiderata da Mattei per i dipendenti dell’Eni appare un traguardo alla portata di tutti. Però in tante famiglie persiste l’usanza di adoperare almeno tre volte la stessa miscela nella caffettiera: per evitare che l’ultima emissione sappia di acqua sporca, viene aggiunto un po’ del caffè messo da parte con la prima.
Anche i nuovi salariati sono abbacinati dal consumismo. Tra i primi acquisti il transistor, l’ultima evoluzione della radio, il cui ascolto raccoglie quasi il doppio delle ore riservate alla televisione, 400 contro 250. Il merito della radiolina, che si può portare con sé, che cambia l’approccio al mondo e anche il senso di comunità, si ascrive al Giappone: al contrario, l’invenzione è americana. Le industrie nipponiche sono state le più pronte a sfruttarla, a commercializzarla a prezzi accessibili, dalle 10 alle 12 mila lire (tra i 120 e i 150 euro). Le ultime resistenze alla compera, alla firma dell’ennesima cambialetta sono vinte il 10 gennaio dall’irruzione di «Tutto il calcio minuto per minuto», la trasmissione più popolare e duratura. L’idea appartiene a Guglielmo Moretti, il responsabile della redazione sportiva. Ha preso spunto da quanto accadeva in Francia con Sport et Musique: informazioni in diretta del campionato di rugby alternate alla messa in onda di canzoni. La struttura del programma rimane identica pure da noi, a parte la rinuncia ai siparietti musicali: prevede interventi dai principali campi di gioco con segnalazioni immediate di gol o di azioni importanti (la copertura della totalità delle partite dal primo minuto avverrà nel 1987). La domenica del debutto sono collegati Niccolò Carosio per Milan-Juve, Enrico Ameri per Bologna-Napoli, Andrea Boscione per Alessandria-Padova. Sandro Ciotti è ancora un collaboratore in attesa di essere assunto con i Giochi Olimpici. Cominciano le acrobazie di quanti la domenica non desiderano conoscere i risultati del campionato per potersi gustare alle 18,45 sulla Rai la registrazione di un tempo della partita clou.

Il cinema rimane in cima alle preferenze e se lo merita: nonostante l’accanimento della censura, spesso sollecitata dall’ Osservatore Romano, si producono pellicole entrate nella storia. Il ‘60 viene salutato dai due capolavori, che si sono imposti alla mostra di Venezia il settembre precedente: La grande guerra di Monicelli e Il generale della Rovere di Rossellini. A febbraio arriva La dolce vita di Fellini; seguono Rocco e i suoi fratelli di Visconti, Tutti a casa di Comencini, La ragazza con la valigia di Zurlini, La lunga notte del ‘43 di Vancini, L’avventura di Antonioni, Il bell’Antonio di Bolognini; si chiude con La ciociara di De Sica. Alberto Sordi, cantore della comicità in romanesco, si è definitivamente imposto su Walter Chiari. Totò e Fabrizi sono considerati due caratteristi. Gassman deve decidere che cosa farà da grande, diviso fra il richiamo del palcoscenico - si cimenta con l’impegnativo Adelchi - i soldi e la gloria dei film: allo straordinario successo de I soliti ignoti si è appena aggiunto quello de La grande guerra. L’abbondanza è così straripante da far perdere, a volte, un po’ di misura. La mostra di Venezia del ‘60 assegna il primo premio a Il passaggio del Reno di André Cayatte, il secondo a Rocco e i suoi fratelli; miglior attore John Mills per Whisky e gloria, miglior attrice Shirley MacLaine per L’appartamento. Il riconoscimento per l’opera prima va a Florestano Vancini regista de La lunga notte del ‘43. Fuori concorso sono proiettati Polyanna e Kapo. Eppure il critico del Corriere della Sera definisce modesta la rassegna, ne predice l’inevitabile declassamento. Insomma, se quell’anno si vendono 748 milioni di biglietti nelle sale di prima, seconda e terza visione - incasso di 116 miliardi (un miliardo e 400 milioni di euro) - non è per la ridotta programmazione televisiva. Il cinema è un vecchio amico, del quale ci si fida a occhi chiusi. Spesso s’ignora il film in programmazione, l’orario d’inizio degli spettacoli. Ci si va quando capita, si entra anche a dieci minuti dalla fine, poi si ricomincia a guardare dall’inizio pur avendo già visto la conclusione. È un continuo alzarsi e sedersi, non esiste l’obbligo di uscire al termine di una proiezione. La tribuna costa più della platea, dove dall’alto può piovere di tutto. L’aria è avvelenata e ispessita dal fumo delle sigarette, tra le file girano i rivenditori di noccioline, sementi, chinotti, gazzose, cremini; la novità è il mottarello a due gusti, vaniglia ricoperta da cioccolata, lanciato dalla Motta fin lì nota per i panettoni. Costano il triplo di cremini e gazzose: 50 lire contro 15.
Nei teatri lirici si sfidano Renata Tebaldi e Maria Callas, Pippo Di Stefano e Franco Corelli; alla Scala dirigono von Karajan, De Sabata, Gavazzeni, Sonzogno; il maestro Dimitri Mitopoulos spira durante le prove della Terza di Mahler: i medici l’avevano avvisato del pericolo, che correva; lui aveva replicato che senza la musica si sentiva morto. Al Piccolo Teatro straripa il genio di Strehler: la compagnia è invitata a New York, a Mosca, a Leningrado (l’attuale San Pietroburgo) con Arlecchino servo di due padroni interpretato da Marcello Moretti. Si comincia dalla Grande Mela: la rappresentazione strappa ovazioni al pubblico del City Center di Broadway e titoli esaltanti sulla stampa. La domenica in cui Moretti decide di riposarsi, il suo posto viene preso da un giovane semisconosciuto, Ferruccio Soleri: per cinquant’anni sarà l’incontestabile mattatore, con la replica 2064 entrerà nel Guiness dei primati. Sui palcoscenici della Penisola competono Eduardo De Filippo e Renzo Ricci, Paolo Stroppa e Gianni Santuccio, Peppino De Filippo e Carlo Dapporto, Giorgio Albertazzi e Aldo Giuffrè, Walter Chiari e Gino Bramieri, Tino Carrano e Gianrico Tedeschi, Gino Cervi e Sergio Tofano, Franco Parenti ed Ernesto Calindri, Vittorio Sanipoli e Glauco Mauri, Regina Bianchi e Pupella Maggio, Lilli Brignone e Rina Morelli, Paola Borboni e Annamaria Guarnieri, Anna Proclemer e Valentina Cortese, Ilaria Occhini e Giulia Lazzarini, Elsa Merlini e Sarah Ferrati, Emma Grammatico ed Eva Magni, Franca Nuti e Laura Adani.

La pretesa di vivere dentro un’atmosfera da libro Cuore, infarcita da vacui paroloni con l’iniziale in maiuscolo, è vanificata da scandali, sotterfugi, voglia di evasione. A svelare l’ipocrisia dominante, a raccontare l’Italia e il Mondo così come sono si avventurano due signori di mezza età, dei quali si è quasi persa la memoria, Ennio Flaiano e Marcello Marchesi. Soprattutto quest’ultimo, milanese dall’aspetto dimesso e dalla battuta fulminante, è stato ingiustamente dimenticato. A lui dobbiamo «Essere o benessere», «Vivi e lascia convivere», «Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano», «Lutero ha fondato il protestantesimo perché non digeriva le ostriche», «Ho soffritto per te», «Supertimido affogò perché si vergognava a chiedere aiuto» (quasi un presentimento della sua paradossale morte in mare), «Tra il dire e il fare c’è una busta da dare», «Sedere è potere», «Oggi alle 21 sciopero contro il terremoto», «l’importante è che la morte ci colga vivi». Poi ci sono i personaggi dell’epoca fulminati con meno battute di quelle che servono per un tweet. «Aldo Moro, il dottor Divago», «Andreotti: chi non muore, si risiede», «Loren, il petto atlantico», «Lollobrigida, la Gina pectoris», «Mastroianni: Marlon Blando», «Feltrinelli: de propaganda Fidel», «Guttuso: una picassata alla siciliana», «Gassman: via col vanto», «Montanelli: l’Italia dei luoghi comuni», «Bianciardi: Miller e una notte», «Bardot: Dio me l’ha data, guai a chi non me la tocca», «Mussolini: il morto perpetuo», «De Chirico: Arraffaello Sanzio», «Chiari: il ragazzo della via Bluff», «Eco: la pietra di Pappagone della cultura italiana», «Fo: Molière elevato a Cuba», «Grassi: il direttore del Piccolo Tetro di Milano», «Maraini, penna montata», «Totò, una faccia mandibolare», «Sartre, Voltaire a sinistra», «de Beauvoir, la grande sartreuse».
Nella gara a non prendersi sul serio, ad anteporre la soddisfazione del ghigno a qualsiasi ideologia gli tiene botta Flaiano: «Non sono comunista perché non me lo posso permettere», «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti», «Lavoratori di tutto il mondo unitevi, ma durante le vacanze sparpagliatevi», «I capolavori oggi hanno i minuti contati», «Il monologo inferiore», «La tv ha abbassato il livello culturale degli intellettuali», «Oggi il cretino è pieno d’idee», «È uno di quei tali che per trovare la sua serenità ha bisogno di farla perdere agli altri», «Ho lasciato la mia famiglia perché ero stanco di sentirmi solo», «Coraggio, il meglio è passato». Quest’ultima freddura assomiglia molto al suo percorso letterario: il travolgente successo del romanzo d’esordio Tempo d’uccidere, vincitore nel ‘47 del primo premio Strega, non ha avuto un bis, forse troppo assorbito o troppo appagato dalle sceneggiature dei film di Fellini. Il lavoro teatrale più ambizioso, Un marziano a Roma, (da non confondere con l’imitazione attuale, l’ex sindaco di Roma, Marino) è stato rivalutato dopo la sua scomparsa. Allorché il 24 novembre lo propone al Lirico, con Gassman protagonista e regista, il flop lo induce a dire di se stesso «l’insuccesso mi ha dato alla testa».





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