ITALIANI DOVETE MORIRE
Il massacro della divisione Acqui a Cefalonia

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A ventun anni dall’aver scritto il nome della divisione Acqui nel Pantheon della memoria torna «Italiani dovete morire», il libro che riportò al centro della storia nazionale il massacro dei nostri soldati a Cefalonia. Arricchito di nuovi capitoli e di nuove testimonianze racconta i vani sforzi condotti dal 2000 dalla magistratura militare e ordinaria di portare a giudizio i militari tedeschi, che si macchiarono dell’immonda strage (oltre 5mila soldati e ufficiali passati per le armi dopo la resa). Purtroppo i pochi responsabili individuati e ancora vivi l’hanno scampata. La giustizia della Germania ha fatto muro archiviando i procedimenti, assolvendo i colpevoli, negandone l’estradizione. Così l’ha sfangata il sottotenente del 98° Otmar Muhlauser, mastro pellicciaio in pensione a Dillingen sul Danubio, nel cuore della Svevia, a 100 chilometri da Monaco. Muhlauser comandava il secondo plotone, che cominciò la tragica giornata del 24 settembre fucilando il generale Gandin. Così l’ha scampata il caporale Alfred Stork, reo confesso: «Dovevamo sparare in tre su ogni ufficiale: uno in testa e due al petto. Al termine ero completamente sfinito. Abbiamo caricato i corpi su un vecchio traghetto, che si è diretto verso il mare aperto. Quando sono tornati abbiamo chiesto che cosa ne avessero fatto dei cadaveri, ci hanno risposto di averli legati insieme e gettati in mare». Hanno tutti ripetuto di aver eseguito gli ordini ricevuti da Hitler. In ciascuno di loro il profondo convincimento bene sintetizzato dalla sentenza choc, con cui la procura di Monaco ha respinto il desiderio di giustizia delle vittime italiane: «archiviazione perché i soldati italiani a Cefalonia erano traditori, e quindi andavano trattati come i disertori tedeschi: fucilati».

Per fortuna il ricordo dei tanti ragazzi (età media 24 anni), che s’immolarono in nome di un’Italia non più fascista e non ancora repubblicana, è tenuto vivo dai figli, dai nipoti, da quanti hanno scoperto in anni recenti il loro sacrificio. Una lunga galleria di confidenze; l’angosciosa ricerca di un genitore che non si è conosciuto o si è conosciuto troppo poco; lettere che dopo ottant’anni non si ha ancora il coraggio di leggere; rabbia e commozione amalgamate in un fortissimo desiderio di non dimenticare. Non dimenticare la scelta consapevole di tanti di andare a morire per consentire alla Patria di voltar pagina; non dimenticare che la Wermacht si rese autrice di quella che nel processo di Norimberga, l’unico con una condanna per l’eccidio, fu definita «una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato».

Infine il capitolo conclusivo dedicato ai reduci ancora fra noi. La narrazione, a volte straziante, di una discesa all’inferno e ritorno, dell’esser precipitati dai giorni felici dell’amore (l’armata sagapò era definito il corpo di spedizione italiano in Grecia) a quelli dell’orrore. Fucilazioni, soprusi, umiliazioni e quell’eterna domanda senza risposta: «perché lui no e io sì?».





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