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Si ricomincia
(1945)


Il 3 maggio è una giornata di sole. L’Italia intera non è più in guerra. Cinquantanove mesi dopo il tragico discorso di Mussolini dal balcone di piazza Venezia, alla buonora siamo fuori. Almeno ufficialmente. Sul quadrante della Storia alle decisioni irrevocabili contro Francia e Inghilterra sono seguiti lutti, lacrime, sacrifici, distruzioni. E ancora ne seguiranno. Per essere davvero in pace bisognerà armarsi di pazienza.
Il mezzogiorno precedente è entrato in vigore il cessate il fuoco stabilito il 29 aprile con l’atto di resa nella regia di Caserta, dov’ è insediato il quartier generale angloamericano. Per i tedeschi l’hanno firmata il colonnello Viktor von Schweinitz e il maggiore Eugen Wenner. Rappresentavano il generale von Vietinghoff, comandante in capo dell’armata tedesca, e il generale delle SS Wolff, il vero cervello della trattativa e della resa. In teoria ha riguardato gli 800mila ancora in armi; nella realtà ha riguardato soprattutto il Triveneto, nel quale si sono asserragliati gli ultimi reparti della Wermacht in attesa d’imboccare la strada di casa attraverso il Brennero. Piemonte, Liguria e Lombardia hanno già provveduto: l’incombere dell’8a armata britannica e della 5a statunitense hanno favorito l’ingresso delle formazioni patriottiche a Milano, a Genova, a Torino.
Il conflitto ormai sul punto di concludersi anche in Europa – Hitler si è ucciso il 30 aprile, Berlino si è prostrata il 2 maggio all’Armata Rossa – lascia in Italia un’eredità di odi spesso concimati con il sangue. S’ispessisce la caccia ai fascisti, sia quelli in armi della milizia, sia gli aderenti alla Repubblica di Salò: un’orrida stagione di regolamenti di conti, intessuti non di rado da vendette private, da biechi interessi economici. E il conto finale sarà di oltre 10mila morti. Cresce la contrapposizione fra il blocco moderato, che s’appoggia agli Stati Uniti e all’Inghilterra, e quello di sinistra, che ha per stella cometa l’Unione Sovietica di Stalin. Alla guerra civile tra fascisti e antifascisti si sostituisce la guerra fredda, ma a volte assai calda, tra chi desidera tenere l’Italia nel campo democratico e chi desidera spostarla nel campo comunista.
Eppure i rappresentanti dei due schieramenti siedono nello stesso governo. La lenta progressione delle armate alleate – in Sicilia, Calabria, Puglia si è finito di combattere nell’estate del ‘ 43 – ha consentito a Badoglio di conservare il proprio ruolo per quasi un anno. Soltanto con la liberazione di Roma, il 4 giugno ’44, si è posto il problema di avere un primo ministro espressione dei rinati partiti politici, impegnati al Nord nella lotta al nazifascismo L’attuale è Ivanoe Bonomi, avvocato mantovano settantenne, a capo dell’esecutivo fra il ‘21 e il ’22, quando l’Italia parlamentare non aveva saputo sbarrare il passo all’arrembante Mussolini. Nato socialista e approdato in seguito al socialriformismo, nella caotica estate del ’43 Bonomi ha favorito la nomina di Badoglio, un cocco del fascismo trasformatosi in risoluto antifascista, a successore del duce. Badoglio si è speso per conquistare il favore dei nuovi padroni: c’è riuscito con Churchill, che pur inizialmente lo disprezzava, non con gli americani, i quali non hanno dimenticato i suoi trascorsi. Sono stati proprio loro, il primo giorno dell’estate ’44, a favorire la sostituzione di Badoglio. La scelta è caduta, per l’appunto, sul monarchico Bonomi, mentre l’antimonarchico conte Carlo Sforza, benché reduce da vent’anni di esilio negli Usa, è stato stoppato dal non gradimento di Churchill.
Bonomi ha varato un esecutivo con rappresentanti della dc, del pci, del psiup, del partito d’azione, del pli, dei democratici del lavoro, il suo partito. Vi sono entrati tutti i big, dal democristiano Alcide De Gasperi al comunista Palmiro Togliatti, a eccezione del socialista Pietro Nenni bloccato dalle troppe contraddizioni, che già dilaniavano il psiup. La navigazione del governo è stata ostacolata dalla violenta diatriba sull’epurazione dei funzionari fascisti: troppi vorrebbero salvarne i moderati e troppi vorrebbero eliminarne i comunisti. Sono così volati gli stracci. A parte rare eccezioni, i principali colpevoli l’hanno scampata. Tuttavia a mandare fuori strada il governo è stata la più delicata delle questioni: quale assetto istituzionale avrà l’Italia? Sarà ancora monarchica o diverrà repubblicana? Il litigio è stato tutto nostrano. Per una volta i repubblicani di Roosevelt, in vista della sua quarta elezione presidenziale, e i monarchici di Churchill si sono limitati a tifare senza intervenire.
Dopo la vergognosa fuga a Brindisi, alla testa dei vigliacconi di gran nome, Vittorio Emanuele III si è industriato di riverniciarsi a nuovo. Dimentico di aver subito la ridicola marcia su Roma nel ’22, di aver affidato l’incarico di presidente del consiglio a Mussolini, di aver firmato le leggi razziali nel ’38 e la dichiarazione di guerra nel ’40, l’anziano sovrano ha cercato di ascriversi il solitario merito di aver defenestrato il «cugino», per via del Collare dell’Annunziata, di cui aveva insignito Mussolini. Vittorio Emanuele ha capito che è in ballo la permanenza della dinastia su un trono forse indebitamente occupato dal 1861. Per consolidare i vecchi favori e conquistarne di nuovi ha accettato a malincuore di nominare Luogotenente del Regno il primogenito Umberto. Ha significato cedergli i poteri in attesa di cedergli la corona.
Il quarantenne erede gode di buona stampa e di vasta simpatia popolare. L’aiutano il dichiarato antifascismo e il considerevole fascino personale della moglie Maria Josè. Umberto si è molto adoperato per riavvicinare la monarchia al popolo, per condividerne i mille patemi. Gira in divisa e ha partecipato al crescente impegno militare dell’Italia cobelligerante nella speranza di acquisire meriti con gli alleati da far successivamente valere al tavolo della pace. E’ stata però una sua intervista al New York Times a scatenare il putiferio. Ha infatti sostenuto che bisognerebbe affidare a un referendum la decisione sul problema istituzionale. Apriti cielo. I partiti della sinistra sono insorti: dal governo era stato già deliberato di deferire la scelta a un’Assemblea Costituente di propria nomina. Quella di Umberto è stata dunque giudicata un’invasione di campo e duramente rampognata. Bonomi aveva, però, avuto in visione il testo delle dichiarazioni di Umberto e l’aveva approvato. La sinistra avversa il referendum temendo che la monarchia godrebbe del sostegno di ampi strati del Meridione e di altrettanti ampi settori dei partiti a cominciare dalla democrazia cristiana, i cui esponenti in un agone parlamentare sarebbero invece obbligati a un atteggiamento più ortodosso.
Si è tornati alla ricorrente contrapposizione fra il Comitato di liberazione nazionale, da cui dipendono le formazioni patriottiche in larga misura legate al pci, e i partiti moderati, minoranza nella lotta armata, ma maggioranza nel Paese avviatosi alla normalità. I più scatenati sono stati i socialisti, hanno scavalcato i comunisti nel pretendere un deciso cambio di rotta e se ne sono inorgogliti. Bonomi ha rassegnato le dimissioni. Umberto ha avviato le consultazioni nel rigoroso rispetto delle norme. Ma il Cln ha rivendicato il diritto di designare la guida del Paese. E’ stato indicato Sforza. Il secco no inglese ha prodotto la scelta di Meuccio Ruini, anch’egli proveniente dal parlamentarismo degli anni Venti, compagno di partito di Bonomi, ma senza l’eguale sostegno presso i democristiani, ormai la maggior forza del moderatismo. Proprio Bonomi ha manovrato per boicottarne la candidatura. Le sue aperture alle tematiche di Togliatti e di Nenni hanno causato una spaccatura sul momento insanabile. Con la benedizione degli alleati Bonomi ha varato nel dicembre ’44 il suo secondo ministero. Hanno partecipato democristiani, comunisti, liberali e democratici del lavoro. Sono rimasti fuori gli azionisti e i socialisti. Togliatti e il cattolico Rodinò hanno avuto la vicepresidenza. Dietro le quinte pure il Vaticano ha appoggiato il reincarico a Bonomi. Pio XII (Eugenio Pacelli), apprezzato per il suo anticomunismo, si è trovato al centro di una fitta ragnatela di colloqui e di manovre. L’hanno ritenuto essenziale per i delicati equilibri dell’Italia da rifondare. La sua popolarità presso i militari statunitensi, in folla a ogni udienza pubblica, ha messo la museruola alle critiche di quanti non hanno dimenticato l’atteggiamento compromissorio nei confronti di Hitler e della persecuzione degli ebrei.
Principe non solo della Chiesa, Pio XII ha aperto un canale preferenziale con i massimi capitalisti del Paese e non mostra alcuna benevolenza per pci e psiup, ai quali, anzi, i suoi sacerdoti e le sue suore contendono l’influenza sulle grandi masse. Estrazione sociale, istruzione, religione lo dividono da Togliatti e da Nenni. Il pontefice non dimentica che nel ‘19 da nunzio apostolico a Monaco di Baviera scansò al pelo una pistolettata in pieno petto degli spartachisti rossi. E’ influenzato dagli ultimi vent’anni di Togliatti e Nenni trascorsi in una furibonda contrapposizione al fascismo tra esili, carceri, guerra civile in Spagna. Togliatti gli appare come un fedele esecutore di ordini di Stalin, di cui è stato un ossequioso collaboratore nella tempesta delle purghe moscovite, allorché ogni sera s’ignorava se al mattino seguente ci si sarebbe svegliati nel proprio letto. Di conseguenza non si fida della confluenza di Togliatti, appena rientrato in Italia, al fronte antifascista senz’alcuna pregiudiziale antimonarchica. E dei Savoia il papa è un fiero sostenitore. Di conseguenza non s’intende neppure con Nenni, benché durante l’occupazione tedesca di Roma l’abbia fatto ospitare nel palazzo del Laterano. Del vecchio combattente repubblicano-socialista di cristallina onestà teme le scelte emotive, l’affidarsi alle visceri piuttosto che al raziocinio, il ritrovarsi spesso su posizioni più estremistiche di quelle di Togliatti.
Se Pio XII ha per interlocutori i big, a incaricarsi dei rapporti più pedestri è il Segretario di Stato, il quarantottenne Giovan Battista Montini, asceso velocemente a uomo di fiducia degli americani, soprattutto massoni e protestanti. Proveniente dall’agiata borghesia bresciana, Montini ha proceduto nel solco del padre, per tre legislature deputato del partito popolare di don Sturzo. Ha ispirato la fondazione della democrazia cristiana e mantiene uno stretto rapporto con i leader, in primis De Gasperi. Ma il vero tramite di Montini è un intelligentissimo, taciturno, giovane laureato in legge alla testa degli universitari cattolici, Giulio Andreotti. De Gasperi lo ha voluto con sé per l’assolvimento delle incombenze giornaliere. Montanelli scriverà: «Ogni mattina andando in chiesa De Gasperi s’intratteneva con Dio, mentre Andreotti s’intratteneva con il parroco».
Insomma comunisti e socialisti sono obbligati a pedalare in salita. Paradossalmente è Togliatti a percepire l’importanza di abbassare i toni, di non spaventare quella che ancora non viene chiamata maggioranza silenziosa, sulla quale al contrario si abbattono i tonitruanti proclami di Nenni impegnato nella singolare rincorsa dei compagni di strada. Non a caso il vecchio e glorioso partito socialista ha marcato con «unità proletaria» la propria denominazione. E’ soprattutto Nenni a caricare di aspettative l’incontro del 5 maggio al Viminale tra il governo in carica e una delegazione del Cln. Sul foglio socialista, Avanti, Nenni ha vergato un infiammato articolo titolato «Vento del Nord», quello che dovrebbe spazzare via i ritardi, le indecisioni, le compromissioni della Roma papalina, reazionaria, veterofascista. L’ha preso sul serio un altro barricadiero del socialismo, Sandro Pertini, che ha perso un fratello deportato a Flossenburg, che ha imbracciato il fucile ovunque fosse possibile, che ha fatto il muratore a Nizza. Scampato a galere e confini, Pertini ha affrontato la lotta armata dall’inizio alla fine rischiando grosso. Ha organizzato la liberazione di Milano, è stato fra i più convinti assertori della fucilazione di Mussolini. Alla vigilia del confronto romano conduce una squadretta socialista a mitragliare la villa, dove risiede Umberto in visita a Milano. Il malcapitato Luogotenente da un lato deve mantenere un atteggiamento super partes, dall’altra deve adoperarsi per rafforzare l’immagine della Monarchia in vista del ballottaggio decisivo. Il viaggio nelle regioni settentrionali controllate dalla Resistenza, che lo avversa in maniera esplicita, ha rappresentato l’estremo tentativo di far valere il ruolo di Capo dello Stato. Pertini racconterà a Nenni di avergli voluto lanciare un chiaro ammonimento: non tornare a Milano, altrimenti farai la stessa fine di Mussolini a piazzale Loreto.
La riunione romana non sortisce effetti pratici. Ribadisce la separazione sempre più accentuata fra populismo rivoluzionario e moderatismo piccolo borghese con la nascita del dualismo De Gasperi-Togliatti. Accentua la precarietà di Bonomi troppo conservatore per gli uni, troppo acquiescente per gli altri. I negoziati per individuare il nuovo presidente del Consiglio si svolgono in un’Europa definitivamente pacificata: l’8 maggio l’ammiraglio Doenitz ha firmato la resa senza condizioni della Germania. I ministri accettano di recarsi a Milano. Stavolta sono Togliatti e Nenni a giocare in casa, nonostante gli Alleati ne frenino le esuberanze e limitino le manifestazioni più smaccatamente propagandiste allestite dai loro sostenitori. Malgrado la presenza dei reparti britannici e statunitensi, il Nord vive in un regime di precarietà. Imperversano le esecuzioni dei fascisti e di chi viene dichiarato tale. In giugno un’irruzione dei partigiani rossi nel carcere di Schio ha fatto strage dei detenuti. Dentro il triangolo rosso dell’Emilia Romagna (Bologna-Modena-Reggio Emilia-Ferrara) si contano già un migliaio di vittime, alla fine il numero dei morti oscillerà tra 5 e 10mila. I combattenti comunisti esercitano un potere, che nessuna autorità pare in grado di contenere. In diverse città per sentirsi al sicuro s’invoca la presenza dei soldati del Corpo italiano della libertà, l’esercito monarchico, che ha combattuto al fianco degli angloamericani.
In tale clima bisogna accordarsi su una personalità che riceva comunque il placet del Cln. Persino gli Alleati e il Vaticano ne sono consci. Il primo nome è quello di Nenni, raggiunto dalla notizia che la terzogenita Vittoria Gorizia detta Vivà è spirata un anno prima ad Auschwitz. Si oppone De Gasperi: paventa che il patto d’azione tra comunisti e socialisti comporti un inglobamento dei secondi da parte dei primi e la creazione di una ragguardevole forza antisistema. Il nome su cui tutti convergono è quello di Ferruccio Parri professore, giornalista del Corriere, importante dirigente dell’Edison. Anch’egli ha zigzagato tra galera e confino senza mai farsene intimorire. Esponente di rilievo del partito d’azione, Parri ha guidato il Cln nel Nord. Catturato dai nazisti è stato liberato dal generale Wolff quale gesto di buona volontà per avviare la trattativa, che avrebbe condotto alla resa del 29 aprile. Consegnato in Svizzera agli americani, Parri ha stabilito un proficuo contatto con Allen Dulles, numero uno in Europa dell’Oss (Office of strategic services), il papà della Cia, che egli avrebbe guidata dalla nascita. Pesa quindi il gradimento statunitense nella designazione di Parri il 17 giugno. Ha la presidenza e gl’Interni. I vicepresidenti sono Nenni e il liberale Brosio; De Gasperi va agli Esteri, Togliatti alla Giustizia, il comunista Scocimarro alle Finanze, l’economista liberale Soleri all’Economia.
Parri è un galantuomo pieno di sostanza e privo di fronzoli, tanto fiero quanto rancoroso. Ha la riservatezza dei grandi borghesi piemontesi, è di Pinerolo, ma si è mostrato intrepido dinanzi al pericolo. La sua rettitudine è purtroppo inversamente proporzionale all’attitudine politica. E’ fatto per essere additato a esempio, non per condurre un governo in una situazione eccezionale per di più rappresentando un partito zeppo di strateghi e poverissimo di votanti. Tocca a lui guidare un Paese mancante di scorte, di rifornimenti, angustiato dall’eccessiva lunghezza del territorio avendo ponti e viadotti distrutti. Rispetto all’anteguerra i mezzi di trasporto ferroviario sono a un sesto, gli autocarri a meno della metà, la flotta mercantile a un decimo. Servono sette ore per andare da Roma a Napoli. A quanti si mettono in viaggio da Reggio Calabria e da Bari viene garantito di giungere a Ravenna, a Pisa, a Livorno: le altre destinazioni più a nord sono affidate all’inventiva di ciascuno, alla buona sorte. L’unico treno giornaliero da Torino a Roma impiega 36 ore; da Milano 33. Ogni convoglio è dotato di un vagone letto, costo del biglietto 1300 lire (circa 55 euro).
Per il trimestre estivo gli approvvigionamenti di carbone sono valutati a un decimo del fabbisogno, pure lo zucchero è a un decimo, la carne a un quarto. Il razionamento dei generi alimentari sortisce manifestazioni di protesta un po’ ovunque, la più imponente si svolge a Milano, e incentiva la borsa nera. Rispetto al 1938 il costo della vita è aumentato venti volte. Restano in piedi gl’impianti industriali, salvaguardati dai propositi di distruzione del tedesco: i tre quarti sarebbero pronti a ripartire, difettano però le materie prime e galleggia una considerevole incertezza nei rapporti fra i proprietari e gli operai, le cui frange più politicizzate predicano l’esproprio proletario. Ai subbugli nelle fabbriche del Nord corrisponde l’occupazione delle terre in Sicilia.
Comunisti e socialisti pretendono il cambio della moneta per smascherare i «pescecani» arricchitisi con il mercato nero, con i traffici illeciti, con l’usura. Soleri, presto deceduto, e il suo successore Corbino si battono, invece, per una normalizzazione in grado di sfruttare e di far crescere l’esistente. Per fortuna i conti lasciati dal ministro delle Finanze di Salò, Pellegrini Giampietro, non sono catastrofici: 350 miliardi di lire circolanti (circa 14 miliardi di euro), 150 di deficit previsto, tuttavia il reddito è la metà di quello del ‘38. Viene lanciato un bot quinquennale al 5 per cento in aiuto della ricostruzione, ma l’effettiva svalutazione della lira rasenta il 95 per cento. Ai valori attuali il Pil ammonta a 1.770 milioni di euro con 566 milioni di debito pubblico e un rapporto debito/Pil al 32%.
Proprio in quei giorni viene posto, all’insaputa di tutti, uno dei cardini del futuro Stato. Dal 28 aprile Enrico Mattei è nominato commissario liquidatore dell’Agip ente per la produzione (estrazione), lavorazione e distribuzione dei petroli. Mattei è un quarantenne ragioniere marchigiano, figlio di un sottufficiale dei carabinieri. A Milano ha avuto successo nel commercio, ha conosciuto nomi importanti dell’industria. Durante la guerra si è avvicinato ai circoli cattolici, ha stretto un rapporto di stima con Marcello Boldrini, cattedratico di fama già all’opera per la fondazione della dc. Entrato a vele spiegate nella Resistenza, Mattei è stato il capo militare più in vista delle formazioni bianche. Nel ’44 è entrato nella segreteria della dc in rappresentanza dei patrioti cattolici. Ha dispiegato al meglio le proprie qualità empatiche in diverse direzioni: ha allacciato un solido legame con il comunista Luigi Longo pur mantenendo proficue relazioni con gl’industriali settentrionali.
Sfuggito a un arresto, ha progredito all’interno del Cln fino a essere l’interlocutore di Parri e di Longo per l’area cattolica, i cui effettivi hanno superato i 40mila. Il 25 aprile Mattei è stato uno dei sei comandanti a guidare la manifestazione per la liberazione di Milano. Il suo incarico all’Agip proviene da Cesare Merzagora, un democristiano atipico, mai iscritto al partito: gran borghese, massone, di estrazione liberale, espressione dei decisivi salotti milanesi. Merzagora ha sfruttato il ruolo di presidente della commissione centrale economica del Clnai. La riconoscenza di Mattei sarà però di brevissima durata: gli preferirà il legame con il ministro Vanoni e poi quello con Gronchi.
L'incarico dovrebbe limitarsi alla liquidazione e alla chiusura dell’azienda pubblica, ma appena insediato Mattei intuisce le potenzialità dell’Agip. Ai fedelissimi Cefis e Marcora, che ha portato con sé dalla Resistenza, spiega che l’ente potrebbe essere una risorsa di assoluta utilità per il Paese sfruttando anche una società satellite, la Snam (Società nazionale metanodotti) costituita per gestire il nascente mercato del gas e per realizzare gl’impianti. Dai documenti riservati Mattei apprende che il 10 giugno ’40, il giorno della dichiarazione di guerra, dallo sconfinato giacimento di Caviaga, dalle parti di Lodi, è giunto il primo gettito di metano. Le operazioni si sono dovute arrestare per l’opposizione dei potentati locali e per l’inadeguatezza degli strumenti: sarebbe servita la «sismica a riflessione» in mano agli americani. Le trivellazioni del ‘44 hanno confermato che si tratta di un giacimento imponente. Per timore che potesse cadere in mani tedesche tutto è stato fermato. Mattei convoca l’ingegnere Carlo Zanmatti, che ha guidato le rilevazioni. Gli approcci sono difficili, Zanmatti è stato un fascista convinto, stenta a credere che Mattei sia disponibile alla collaborazione. Quando si capiscono, stipulano un’alleanza inossidabile. Zanmatti convince Mattei che Cavriaga potrebbe essere una delle principali risorse della ricostruzione. Il 25 agosto riprende la perforazione nel pozzo 1.
Gli americani hanno ratificato la nomina di Mattei, tuttavia pressano il ministro del Tesoro Soleri per liquidare d’autorità l’Agip. Arrivano a offrire uno sproposito, 250 milioni di lire (quasi 10milioni di euro), per le attrezzature. Al contempo diversi tecnici stranieri visitano le zone dell’Agip, chiedono permessi di ricerca. Mattei s’appiglia a ogni pretesto per non cedere. Ne paga le conseguenze: i beni suoi e della moglie vengono sequestrati con l’accusa che siano profitti di regime. E’ diffusa la voce di sue simpatie per i comunisti, addirittura che possa essere al soldo degli stalinisti. Riesce comunque a tirarla per le lunghe. Le nuove perforazioni sono finanziate con acrobatici artifici contabili e con i prestiti elargiti personalmente da Raffaele Mattioli, l’amministratore delegato della Banca Commerciale, che ha voluto scommettere sulle qualità di Mattei.
Il suo attivismo lo mette nel mirino di quanti non possono dire no ai potentati americani. Mattei viene degradato a consigliere d’amministrazione con il contentino di un’inutile elezione alla Consulta. I periti delle società statunitensi ricevono il via libera per sfruttare il lavoro dell’Agip. Mattei però prepara la controffensiva. Grazie al solito Boldrini è entrato in contatto con la classe politica democristiana orbitante attorno all’università cattolica. Il nume tutelare è Vanoni: nel ’43 è stato fra gl’ispiratori del «Codice di Camaldoli» il documento elaborato da alcuni intellettuali cattolici per definire il programma sociale della dc. Ma per raggiungere l’empireo dei massimi sistemi occorre essere eletti in parlamento e per essere eletti in parlamento servono i voti. Sono quelli che Mattei può garantire a Vanoni e alla dc grazie al ferreo controllo conservato sugli ex militanti nel partigianato moderato. In vista dei cimenti elettorali l’accordo è siglato: De Gasperi e Vanoni riconoscono a Mattei un’ampia delega nel settore petrolifero. A breve seguirà l’incarico di presidente dell’Agip a Boldrini con Mattei vice.

Si vivono giorni convulsi. La fine del conflitto pare aver agito da moltiplicatore ai casi da risolvere. Dai campi di prigionia tedeschi, inglesi, americani sono in rientro oltre un milione e trecentomila militari. Sono a pezzi, moltissimi malati, quelli reduci dai lager dell’Europa settentrionale scheletrici per una detenzione ai limiti della schiavitù. Avevano sperato in ben altra accoglienza dalla Madre Patria: si sentono incompresi e dimenticati. Lamentano una disparità di trattamento rispetto agli appartenenti alle formazioni patriottiche, che si cominciano a chiamare partigiani. Non stanno simpatici ai partiti di sinistra: più o meno sottovoce li indicano come quelli che hanno combattuto la guerra dichiarata da Mussolini. Ne viene temuta la vicinanza alle forze di centrodestra. Ogni forma di associazionismo sarà contrastata.
Le mille sventure, che vive l’Italia trovano una magistrale esemplificazione in «Napoli milionaria» il dramma di Eduardo De Filippo in scena dal 25 marzo al teatro San Carlo. La parabola della famiglia Iovine, l’alternarsi degli stati d’animo, la speranza di poter sfuggire agli appuntamenti angoscianti, il precipitare sempre più in basso sono di tantissime famiglie italiane, per le quali non s’intravede una luce in fondo al tunnel. La battuta più famosa del capolavoro eduardiano, «Ha da passa’ ‘a nuttata» si erge a slogan beneaugurante dalle Alpi alla riviera dei Ciclopi. Da Napoli giunge anche la canzone simbolo del periodo, Munasterio ‘e Santa Chiara. Il testo riporta il desiderio di un emigrante di rivedere la città accompagnato dal timore di trovarla distrutta dalla guerra. In questo paesaggio di rovine cresce la necessità di affrontare un mondo completamente nuovo e diverso. Il monastero di Santa Chiara, abbattuto dai bombardamenti, diventa così emblema dell’angoscia di Napoli e di tutta l’Italia. La canzone, scritta da Michele Galtieri e Alberto Barberis, è eseguita dal ventiduenne Giacomo Rondinella durante la rivista teatrale Imputato alziamoci.

Agli infiniti problemi di ordine pubblico si aggiunge una disoccupazione grave in Settentrione, gravissima in Meridione. Il sindacato soffia sul fuoco dello scontento in oggettivo aiuto a pci e psiup. Il 9 giugno dell’anno precedente è nata a Roma la Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil). L’hanno costituita il comunista Di Vittorio, il democristiano Grandi, il socialista Canevari. Di Vittorio è un bracciante pugliese forgiatosi nelle lotte contadine d’inizio secolo e in una durissima contrapposizione alla dittatura fascista. Viene designato segretario ed è la scelta migliore per il sindacato, non per i partiti moderati, che vedono così aumentare il numero degli avversari. Di Vittorio, infatti, conduce la Cgil su posizioni di netta ostilità al governo con il sottinteso che i compagni comunisti e socialisti pur essendone parte non riescono a far passare idee, programmi, proposte. I più scatenati sono i socialisti, sempre pronti ad annunciare l’imminente fine della proprietà privata, la nascita di comitati di salute pubblica per la gestione di aziende e imprese. Scavalcano regolarmente Togliatti molto più accorto e realista. Intuisce che non uno di quei propositi vedrà la luce: sarebbe stato complicato con l’incombenza delle armate di Stati Uniti e Gran Bretagna, i cui vertici politici, scottati dalla rivolta stalinista in Grecia, s’adoperano per evitare il bis in Italia. L’unico risultato raggiunto da simili sparate è di spaventare una larga fetta dell’opinione pubblica.
In sua difesa dice di volersi battere L’Uomo qualunque, il settimanale fondato (27 dicembre ’44) dal commediografo e giornalista napoletano Guglielmo Giannini. Suocero di un famosissimo calciatore poi allenatore, Fulvio Bernardini, Giannini è un liberale perbene, dotato di monocolo e di una verve fulminante. Nella testata dentro la U maiuscola si vede un torchio che schiaccia una striminzita immagine di uomo: è l’immagine della classe politica, che opprime il borghese, il travet, insomma l’uomo qualunque. Sotto la testata una rozza vignetta, dove un poveraccio scrive su un muro: Abbasso tutti. Il successo lo certificano le tirature: dalle 25.000 del primo numero si arriverà alle 850.000 del maggio ‘45. Una delle rubriche più seguite, intitolata Le vespe, è nutrita di pettegolezzi sugli uomini politici e sugli intellettuali. Fin dal primo numero la posizione del settimanale è chiara: contraria al fascismo, di cui condanna il centralismo decisionale, ma anche al comunismo e agli «antifascisti di professione», accostati al primo fascismo per la smania da epurazione. Accusato di essere cripto-fascista, più voci hanno domandato la soppressione de L’uomo qualunque. Il 5 febbraio ’45 lo stesso Giannini è stato denunciato dall’alto commissario dell’epurazione, il comunista Ruggero Grieco. Non subirà conseguenze, tuttavia l’aggettivo «qualunquista» acquisterà un valore spregiativo.

Dal 25 aprile i rappresentanti dei 43 Stati orbitanti attorno alle Potenze vincitrici della guerra sono riuniti a San Francisco per battezzare l’organizzazione delle Nazioni Unite, l’Onu. Succede alla Società delle Nazioni, che fra le due guerre si è rivelata fallimentare nei tentativi di gestire le crisi internazionali. L’Italia è stata esclusa: non hanno trovato ascolto le proteste di Parri e quelle di don Sturzo, il fondatore del partito popolare, il papà della dc, esule negli Usa. Alla conclusione dei lavori, il 25 giugno, i fondatori auspicano che qualsiasi problema sia d’ora in avanti demandato all’arbitrato dell’Onu, tuttavia si assicura il diritto di veto ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Stati Uniti, Gran Bretagna, Urss, Francia e Cina, quella ovviamente rappresentata dal generale Chiang Kai-Shek sempre più in difficoltà dinanzi all’armata comunista di Mao Tse-tung. Hanno sancito il diritto del più forte, è il commento di don Sturzo.
Purtroppo il governo italiano è paralizzato da un eccesso di beghe. Governa soltanto 36 province, le altre sono ancora sotto la tutela dell’Allied Military Government of Occupied Territories (Amgot poi Amg), ma anziché occuparsi degli enormi affari correnti trova il tempo di dedicare diverse sedute alla dichiarazione di guerra al Giappone (14 luglio) oppure di litigare sulla data in cui eleggere la Costituente, il primo passo verso la Repubblica, della quale i socialisti hanno l’ossessione: la vivono come panacea di ogni male. Nell’attesa della Costituente, incaricata di varare la Carta in sostituzione dello Statuto Albertino, viene varata la Consulta di 448 bennati, nominati dai partiti e dalle organizzazioni di categoria. Non hanno alcun potere deliberante. A Sforza viene dato il contentino della presidenza. Nelle sue quaranta inutili sedute la Consulta diviene la tribuna dei vecchi tromboni dell’epoca prefascista, Nitti, Orlando, lo stesso Bonomi, e di molti, che saranno presto cancellati dalle imminenti elezioni. La debolezza concreta dell’esecutivo si manifesta crudamente dinanzi ai due più impellenti rompicapi: l’indipendentismo siciliano e la questione giuliana, cioè la futura collocazione di Trieste.
In Sicilia il movimento indipendentista (Mis), spesso chiamato separatismo, ha cominciato a mugugnare nel ’42 e si è manifestato nel luglio del ’43 con l’ingresso del V corpo d’armata di Patton a Palermo. L’ispiratore e il tenutario del Mis è un plurisessantenne dalla folta capigliatura incredibilmente corvina, Andrea Finocchiaro Aprile ex sottosegretario al tempo di Giolitti. E’ stato un avversario del fascismo; è stato un servile estensore di diverse suppliche a Mussolini per implorare un posto adeguato al proprio rango; è stato un delatore di ebrei; è stato, e continua a esserlo, un gran massone con molteplici aderenze presso le loggi inglesi al punto da essere sospettato d’intelligenza con il nemico durante la guerra. Ma Finocchiaro Aprile è soprattutto un impunito bugiardo, che fa della menzogna la sua esclusiva arma politica. La vanteria di aver dietro l’80 per cento dell’isola gli ha guadagnato inizialmente la considerazione di inglesi e americani, interviste e articoli amichevoli sui loro giornali. Lui ha approfittato di questa piccola notorietà per inviare lettere ai coniugi Roosevelt, a De Gaulle, a Churchill. L’assenza di risposte non gli ha impedito di citare negli interventi la cordiale corrispondenza con i grandi della Terra. Finocchiaro Aprile è sostenuto da nobili e mafiosi spesso frequentatori delle medesime logge, e di lui si dirà che fosse pure affiliato a Cosa Nostra.
Lo avversano democristiani e comunisti, tuttavia serve agl’inglesi quale minaccia all’unità territoriale per tenere sotto scopa gli affannati governi Bonomi e Parri. Prendono, invece, le distanze gli americani fautori dell’integrità dell’Italia quale prima barriera al comunismo dell’Europa orientale. Al palesarsi delle prime difficoltà il Mis gioca anche la carta dei fuorilegge: arruola i più feroci, la banda dei niscemesi e Salvatore Giuliano, da scatenare contro le forze dell’ordine, accusate di essere biechi occupanti. Gli uomini in divisa diventano il bersaglio d’insulti, di malumori, spesso di fucilate. Capita perciò che perdano la testa: è successo il 19 ottobre ’44 a Palermo. Dipendenti comunali in sciopero hanno circondato la prefettura: l’arrivo di 47 soldati della divisione Sabauda, adibita al mantenimento dell’ordine pubblico, ha fatto precipitare la situazione. I militari hanno aperto il fuoco senza plausibile motivo: si sono contati oltre 20 morti e circa 140 feriti. Finocchiaro Aprile ci si è buttato a capofitto: una volta di più l’Italia e i suoi tutori sono stati indicati quali persecutori del popolo siciliano.
In dicembre Catania è stata messa per due giorni a ferro e a fuoco: i rivoltosi hanno assaltato e dato alle fiamme il municipio, il palazzo di giustizia, la sede del Banco di Sicilia, l’esattoria, l’agenzia delle entrate. Soldati, carabinieri, poliziotti sono stati tenuti nelle caserme, mentre gl’indipendentisti e i provocatori fascisti impazzavano. Nel gennaio ’45 scontri sono avvenuti in tante località: Comiso ha proclamato la libera repubblica resistendo per una settimana all’assedio dell’esercito; a Piana degli Albanesi la ribellione è durata cinquanta giorni fino all’irruzione di 500 fra carabinieri, soldati e alpini. Per quanto abbia insidiato l’esistenza dello Stato, il Mis ha trovato udienza presso i monarchici e presso i repubblicani. Agli emissari di Umberto gl’indipendentisti hanno consegnato il documento con le rivendicazioni. Però si sarebbero accontentati anche di una soluzione federalista: l’ha annunciato in un comizio lo stesso Finocchiaro Aprile pronunciandosi, nello sconcerto degli adepti, per la Repubblica. Al punto da offrirne la presidenza all’ottantacinquenne Orlando. Ma questi ha nicchiato: alla presidenza ci puntava davvero, tuttavia su basi più consistenti. A non prendere sul serio Finocchiaro Aprile e i suoi accoliti è stata Cosa Nostra: ha spostato il proprio appoggio alla democrazia cristiana, ritenuta molto più adatta per rappresentare i bisogni di massoni, latifondisti, borghesi, imprenditori, cioè il Pus (Partito unico siciliano).
Il meglio Finocchiaro Aprile lo ha riservato alla conferenza di San Francisco dell’Onu. Ai primi di aprile ha inviato un memorandum alle delegazioni dei Paesi partecipanti. Fatto l’immancabile omaggio ai Vespri, vi era scritto che l’intera isola è per l’indipendentismo, che il 15 ottobre decine e decine di migliaia di siciliani avrebbero impugnato le armi, se le loro richieste non fossero esaudite. E chi se ne frega se il presunto esercito siciliano, l’Evis, mai supererà le due dozzine di militanti. Il 14 aprile, all’apertura del secondo congresso del Mis, Finocchiaro Aprile ha annunciato che Roosevelt, poco prima di morire, ha fatto discutere e votare il memorandum durante le riunioni preparatorie della conferenza. Esito trionfale: 31 voti favorevoli, 8 contrari. E i quattro mancanti? O dimenticati per strada o astenuti.
Il congresso è prorotto in un’entusiastica ovazione. L’indipendenza è apparsa dietro l’angolo. Hanno tremato Bonomi, presidente del consiglio, e De Gasperi ministro degli Esteri. Un singolare relazione dei carabinieri ha fatto addirittura ascendere alla conferenza di Yalta la discussione sulle sorti della Sicilia. Il 28 aprile Finocchiaro Aprile ha inviato un telegramma di felicitazioni a Umberto «per completa liberazione territorio nazionale». Senza però intaccare «il carisma della fede repubblicana». E’ dovuto intervenire il dipartimento di Stato americano per sbugiardare Finocchiaro Aprile: nel telegramma al console di Palermo ha spiegato che nessun voto era avvenuto nella Conferenza di San Francisco e che nessuna delegazione aveva mai pensato di esaminare il memorandum dell’instancabile ciarlatano.
Molto più serio, e tragico, quanto avviene alla frontiera orientale. Dall’inizio della lotta al nazifascismo l’esercito jugoslavo di Tito, sostenuto da Churchill e armato da Roosevelt, ha allungato la propria ombra sanguinaria sulle terre friulane e giuliane. Non era soltanto desiderio di allargare i propri confini, incidevano rancori vecchi e nuovi rinfocolati dalle persecuzioni del fascismo e delle truppe d’occupazione. La strage dei patrioti della Osoppo alle malghe di Topli Uork vicino Faedis ne ha rappresentato l’acme più cruento, anche se a compierla sono stati i comunisti locali. La Osoppo è composta in gran parte da cattolici e monarchici. Vi sono accorsi in massa pure gli alpini. Hanno combattuto contro i tedeschi e contro le camicie nere della repubblica di Salò, ma loro presenza dava fastidio agli sloveni del IX Corpus. E’ stato esplicitamente richiesto ai compagni friulani di liberarsi di una simile presenza. E’ stato chiarito in maniera definitiva che soltanto la sottomissione ai vertici jugoslavi avrebbe salvaguardato la vita dei combattenti non comunisti. D’altronde, la marcia di avvicinamento dei titini a Trieste è stata costellata di foibe e d’infoibati senza differenza tra ustascia croati, fascisti e italiani, in special modo borghesi sottoposti a un’evidente pulizia etnica. Nella più celebre delle foibe, Basovizza, le autorità alleate affermeranno di aver estratto nel luglio-agosto del ‘45«450 metri cubi di resti umani».
All’alba del primo maggio poche migliaia di partigiani jugoslavi male in arnese, appoggiati da cinque carri armati, sono entrati a Trieste. La città è insorta il giorno prima. I patrioti del Cln sono stati guidati da Edoardo Marzari e da Antonio Fonda Savio. Marzari è un sacerdote inviso alla dittatura. Dal ’44 ha guidato il Cln triestino. Ingabbiato dai fascisti e torturato a lungo dalla Ghestapo, è stato liberato dal futuro sindaco Marcello Spaccini. Fonda Savio è un intellettuale, ufficiale degli alpini nelle due guerre. Ha sposato Letizia, l’unica figlia d’Italo Svevo, l’autore della «Coscienza di Zeno» e di «Senilità». Hanno avuto tre figli. Il ventitreenne Pietro e il ventiduenne Paolo sono andati con la Julia in Unione Sovietica e periti nel campo di concentramento. Il ventunenne Sergio è morto, colpito da una granata, negli scontri dell’insurrezione.
Gli uomini di Marzari e Fonda Savio sono stati immediatamente disarmati dagli slavi, parecchi dirigenti del Cln arrestati. Tito ha stremato i suoi per giungere a Trieste in anticipo sulla divisione neozelandese del generale Freyberg. A questi hanno comunicato che la presenza degli Alleati è sgradita da Trieste a Gorizia. Ma Freyberg è uno tosto, capace di litigare con i suoi capi, Montgomery, Alexander. Dunque, ha oltrepassato l’Isonzo e il 2 maggio si è insediato a Trieste. Ha ricevuto la resa della guarnigione tedesca, 2600 uomini, ma si è limitato ad occupare il porto e le vie di accesso al mare. Si parlerà di fraintendimenti con il Cln nazionale. La gran parte della città è stata lasciata agli jugoslavi. Si sono iniziati quaranta giorni di terrore. Il generale Dusan Kveder è diventato governatore, Franz Stoka commissario politico. Sugli edifici pubblici ha sventolato la bandiera di Belgrado, accanto il tricolore con la stella rossa. I conti in banca sono stati bloccati. Gli occupanti hanno assunto il controllo di tutte le imprese. La requisizione dei beni dei criminali di guerra è trascesa spesso in rapine e spoliazioni. E’ stato creato il sindacato unico. Il nostro avvenire l’unico giornale autorizzato ad andare in edicola ed è inutile dire da quale parte pencoli. Arresti, rapimenti, deportazioni, fucilazioni si sono succeduti a ogni ora.
Tito gode dell’appoggio esplicito dell’Urss, con cui ha siglato un’alleanza venticinquennale. Per giustificare l’annessione della Venezia Giulia e di Trieste il futuro presidente ha dichiarato in un’intervista che «il desiderio della popolazione dell’Istria e di Trieste di essere accolte nella nuova Jugoslavia, sarà esaudito». A maggior chiarimento ha aggiunto: «l’Italia ci dovrà delle riparazioni per i danni arrecati». L’Italia assiste affranta al dramma della città simbolo della prima guerra mondiale assieme a Trento e Gorizia. Risorge uno spirito unitario, cui rimane estranea l’Unità. Il suo titolone recita: «Trieste è libera». Le flebili proteste del governo Bonomi, espressione di un Paese senza un vero peso internazionale, non trattengono Tito dall’impossessarsi delle sedi della Banca d’Italia a Trieste e a Gorizia. 170 milioni di lire vengono trasferiti in Jugoslavia.
Togliatti, che in Unione Sovietica ha assunto una posizione molto aspra nei confronti dei soldati italiani in prigionia (di 80mila la scamperanno pochissimi), continua a imperversare. Ai triestini consiglia di «non essere vittime di elementi provocatori, interessati a seminare discordia tra il popolo italiano e la Jugoslavia democratica». Per lui le foibe rappresentano «giustizie d’italiani (antifascisti) contro italiani (fascisti)». Spiega che sono in corso «campagne menzognere e di odio contro un regime di democrazia avanzata». In difesa di Trieste intervengono gli angloamericani. Il 9 giugno firmano a Belgrado la restituzione all’Italia di Trieste, di Gorizia, delle vie di accesso verso l’Austria. Le truppe di Tito accettano di ritirarsi dietro la linea studiata dal generale britannico Morgan. Racchiude la cosiddetta zona A del futuro Territorio libero attorno a Trieste. Esclude Capodistria, la stessa Istria, Fiume assegnate alla Zona B di pertinenza della Jugoslavia.Viene detto che le delimitazioni rispondono a esigenze militari: la parola definitiva spetterà al trattato di pace. Ma non pochi in Italia realizzano che sarà arduo per non dire impossibile strappare a Tito i suoi nuovi possedimenti.
Della questione giuliana si occupa, di striscio, la conferenza di Postdam (17 luglio-2 agosto). E’ stata convocata per rifinire l’assetto mondiale delineato in febbraio a Jalta da Roosevelt, Churchill, Stalin. La scomparsa di Roosevelt ha caricato la conferenza di un significato specifico: mettere per la prima volta di fronte Truman e Stalin. Churchill confida che il neo presidente Usa si mostri meno cedevole del predecessore, presentatosi a Jalta in stato preagonico. L’argomento più caldo è la nuova frontiera tra Polonia e Germania con Stalin e Churchill ben distanti. A rovesciare il tavolo provvede il sorprendente esito delle elezioni in Gran Bretagna: il socialista Attlee sconfigge a sorpresa il trionfatore del conflitto e ne prende il posto a Postdam. Stalin ha la strada spianata: sbarra anche l’accesso all’Onu della Spagna di Franco. Crea così la distinzione fra dittatori buoni, lui, e dittatori cattivi, coloro che non dipendono da lui. Sulle brame europee di Stalin lancia un inascoltato grido d’allarme George Orwell con «La fattoria degli animali» in uscita il 17 agosto nelle librerie inglesi
Viene delegato ai ministri degli Esteri di Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia, Cina l’elaborazione dei trattati di pace. L’indicazione è di mettere all’angolo la Germania accomunandola in toto al nazismo e facendone una Nazione sotto tutela a tempo indeterminato. Maggiore apertura nei confronti dell’Italia, che è stata cobelligerante e di cui viene apprezzata l’inutile dichiarazione di guerra al Giappone. Nessuna decisione è però assunta sul contenzioso con la Jugoslavia. Non viene presa in considerazione neppure la timida richiesta italiana di rifarsi alla linea confinaria studiata nel ’19 dal presidente statunitense Wilson, che per altro aveva fatto gridare alla «vittoria mutilata». D’Annunzio l’aveva usata per occupare Fiume; il nascente fascismo di Mussolini quale incendiario strumento di propaganda.
Spalleggiato da Stalin, Tito insiste nel reclamare il territorio fino alla provincia di Udine. Pur affettando comprensione gli Alleati ci fanno capire di non illudersi sulla sorte di Pola, Fiume, Zara. Qualche piccola speranza viene coltivata per una fetta dell’Istria. Togliatti continua ad appoggiare Tito. Si produce una frattura con De Gasperi mai più sanata. E dire che i rapporti fra i due erano stati di reciproca stima. S’erano dati il tu, avevano scambiato più di una lettera. La prima era stata di Togliatti nel settembre del ’44: aveva proposto la creazione di un grande blocco democratico, pci-dc, in sostegno dei lavoratori. De Gasperi aveva risposto in modo positivo: il blocco si poteva attuare con la garanzia che la dc sarebbe stata in prima fila nel respingere gli assalti delle «forze reazionarie, le quali hanno già condotto l’Italia alla rovina». A parte la solidarietà antifascista, nessuno dei due parlerà più di unire le forze. Bisognerà aspettare trent’anni, Moro e Berlinguer per ipotizzare un’unione dc-pci.
Le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, la resa del Giappone costituiscono il preambolo della conferenza di Londra in teoria dedicata ai nuovi confini europei. La bomba in possesso degli Stati Uniti solletica l’aggressività del ministro degli Esteri sovietico, Molotov. Arriva a rivendicare persino il possesso del Dodecanneso e della Libia, su cui giunge l’immancabile consenso di Togliatti. Si discute poco, viceversa, di Trieste e dei confini giuliani. L’invito a De Gasperi si risolve in un’umiliazione. Lo costringono alla fila in aeroporto; sopporta una lunghissima anticamera in attesa che il collega jugoslavo Kardelj esponga le proprie ragioni; gli concedono soltanto un quarto d’ora per i colloqui bilaterali con i cinque ministri degli Esteri. Nel resoconto a Parri, schierato totalmente con lui, e al resto del governo De Gasperi si professa moderatamente ottimista. Il più pessimista è Nenni convinto che la Venezia Giulia sarà persa quasi per intera.

Il 24 settembre al cinema Quirino di Roma debutta «Roma città aperta». L’accoglienza è tiepida, le recensioni non entusiasmano. Il regista è il trentanovenne Roberto Rossellini, figlio di un agiato imprenditore, Angiolo, tra l’altro ha edificato la prima sala cinematografica della Capitale, il Barberini. Rossellini è stato molto amico di un figlio di Mussolini, Vittorio, appassionato cinefilo. Le malelingue hanno attribuito a tale legame la sua veloce carriera. Fra il ’41 e il ‘43 Rossellini ha diretto tre film, definiti dalla critica di sostegno alla guerra fascista. In questo ambito è diventato amico del giovanissimo Federico Fellini, venuto da Rimini e disegnatore satirico del Marc’Aurelio, e di un bravo caratterista romano, Aldo Fabrizi.
La prima idea di Rossellini era un documentario sul coraggioso don Pietro Pappagallo, ucciso nel massacro delle Fosse Ardeatine, tratto dal testo «La disfatta di Satana» del giornalista monarchico Alberto Consiglio. Gli apporti alla sceneggiatura di Luciano Amidei, di Celeste Negarville, di Fellini, di Ferruccio Disnan, che avrebbe poi polemicamente lasciato, hanno fatto crescere il soggetto a una vicenda paradigmatica della resistenza romana, sebbene siano spariti i fascisti e i cattivi siano impersonati soltanto dai nazisti. Non è l’unica singolarità del film. In futuro Rossellini sarà accusato di aver trasformato la lotta di pochissimi nella ribellione di un popolo; di esser passato con eccessiva disinvoltura dai film inneggianti il fascismo a quelli inneggianti la nuova Italia, nel ’46 dirigerà «Paisà»; di aver sostituito i torturatori comunisti sovietici de «L’uomo con la croce» (pellicola del ’43) con i tedeschi. Unica costante la presenza di un prete vittima sacrificale.
La scrittura del film si è dispiegata sui tavoli dei ristoranti del centro. Si sono scontrate e amalgamate le differenti visioni sulla resistenza romana fra Amidei, Disnan e lo stesso Fellini in disaccordo sugli attentati come quello di via Rasella. Fellini è stato anche incaricato di condurre la trattativa con Fabrizi: scottato da precedenti esperienze, l’attore pretendeva 100mila lire sull’unghia (circa 4mila euro) prima di accettare. Sarà lui l’umanissimo, straordinario don Pietro, nella cui figura sono stati racchiusi sia don Pappagallo, sia don Giuseppe Morosini fucilato a forte Bravetta. La scelta di Anna Magnani per il ruolo femminile è stata agevolata dagli occhi dolci, che lei e Rossellini si facevano, benché la Magnani fosse all’epoca legata all’attore Massimo Serato. Interpreterà Anna, il cui personaggio riecheggia Teresa Gullace ammazzata dai nazisti, mentre tentava di parlare con il marito. E’ il film che la sospinge in alto, che ne segna e ne cambia la carriera.
Di soldi ne circolavano pochissimi. E’ stato determinante l’apporto di un commerciante di lana, Aldo Venturini, con considerevoli disponibilità economiche. Ha fornito i capitali iniziali ed è stato convinto da Rossellini a intervenire quando le riprese si sono fermate per mancanza di fondi. I rulli di pellicola sono stati elemosinati dai documentaristi al seguito delle truppe americane. L’elettricità è stata presa qua e là. L’indisponibilità di Cinecittà, adibita a rifugio di sfollati, ha obbligato a girare all’aperto e nel vecchio teatro Capitani. Si sono usate strade, che andavano liberate dalle macerie. La famosa sequenza di Anna all’inseguimento del camion, la più celebre del neorealismo, è avvenuta in via Lorenzo Montecuccoli sotto lo sguardo esterrefatto dei passanti e degli abitanti affacciati ai balconi. Una scena quasi identica a quella che aveva visto la Magnani inseguire Serato, in visita sul set, dopo uno scoppiettante alterco. Insomma, il neorealismo battezzato da «Roma città aperta> e che diventerà il marchio di fabbrica del miglior cinema italiano del dopoguerra, è stato pure figlio della necessità e dell’indigenza.
La trama racconta le peripezie dell’ingegnere comunista, Manfredi, braccato dai tedeschi. E’ ospitato dal tipografo antifascista Francesco, alla vigilia del matrimonio con la vedova Pina, madre del bimbo Marcello. Li aiuta don Pietro, il sacerdote del quartiere, prezioso sostegno dei perseguitati politici e dei patrioti. Va male a tutti. Pina è abbattuta dalla mitraglia di un tedesco mentre cerca di raggiungere il camion sul quale hanno caricato Francesco, che in seguito scapperà. Manfredi guida l’irruzione per liberare alcuni ostaggi, ma viene tradito dall’amante e arrestato durante un incontro con don Pietro. Manfredi muore dopo aver subito numerose torture, don Pietro viene fucilato sotto gli occhi pieni di lacrime di Marcello. Lui e gli altri ragazzi continueranno la lotta sotto la guida di Francesco.
L’immenso successo del film sarà decretato dai riconoscimenti riscossi all’estero. I primi maturano negli Stati Uniti: uscito nel febbraio ’46 a New York, la pellicola si aggiudica il National Board of Review e il New York Film Critics Circle Awards. La Magnani vince quale attrice protagonista; in Italia, al contrario, riceverà il Nastro d’argento quale attrice non protagonista. Il suggello l’imprime la Palma d’Oro assegnata a Rossellini dal Festival di Cannes dello stesso anno. Nel ’47 Amidei e Fellini saranno candidati all’Oscar per la sceneggiatura. Con i consensi arriveranno gl’incassi fino a sfondare la quota 100 milioni di lire (un po’ meno di 2 milioni di euro), all’epoca molto considerevole.

A marzo ’45 sul quotidiano napoletano La Voce è apparso un singolare appello: «Date una bicicletta a Fausto Coppi». L’ha ideato il giovanissimo redattore Gino Palumbo, futuro leggendario direttore della Gazzetta dello Sport. A lui si era rivolto un fresco reduce dalla prigionia in Africa: «Sono Coppi e vorrei tornare a correre, ma ho soltanto una bici militare con le gomme piene che mi procurano dolori continui. Il suo giornale mi può aiutare?». Rispondono in tre. Coppi è ricordato per aver vinto a soli vent’anni l’ultima edizione del Giro d’Italia, nel ’40, conclusosi il giorno antecedente la dichiarazione di guerra. Due anni dopo, il 17 novembre ’42, ha stabilito al Vigorelli di Milano il record mondiale dell’ora su pista, 45,871 km, 31 metri in più del francese Archambaud. L’impresa è stata ai limiti dell’impossibile: pochi allenamenti dietro motori a causa del carburante razionato, città sotto bombardamenti, un’alimentazione irregolare. Per evitare assembramenti in pista gli organizzatori hanno comunicato un falso orario della prova, tanto che gli spalti sono rimasti semivuoti. La Gazzetta dello Sport ha titolato che hanno prevalso la «forza e volontà della razza italiana». Almeno Coppi ha incassato il premio di 25mila lire (circa 15mila euro).
Delle tre bici offerte è stata preferita quella di un falegname di Grumo Nevano.
Con essa Coppi ha raggiunto Roma ed è stato tesserato per una società locale con la cui maglia ha raccolto cinque vittorie: la Coppa Salvioni e la Coppa Candelotti nel Lazio, il circuito degli Assi a Milano, il circuito di Ospedaletti, il circuito di Lugano. A fine estate si stabilisce nella natia Castellania, provincia di Alessandria. Il 22 novembre sposa l’antica fidanzata Bruna Ciampolini. In ottobre riappare anche il suo ex capitano, il trentunenne Gino Bartali: vince il Giro delle quattro province del Lazio su tre tappe. Nel periodo dell’occupazione nazista Bartali ha rischiato grosso portando falsi documenti d’identità agli ebrei nascosti dai frati francescani ad Assisi. Li fabbricavano a Firenze e li affidavano a Ginettaccio: lui li celava nella canna della bicicletta, sulla quale avrebbe pedalato fino al convento. L’ha fatto decine di volte e non l’ha raccontato ad anima viva. Trascorreranno decenni prima che il suo comportamento venga conosciuto e lui inserito dagli israeliani fra i Giusti delle Nazioni. A modo suo Bartali si è tenuto in allenamento, però viene dato per finito: troppo lontano il trionfo al Tour nel ’38 in concomitanza con il secondo titolo mondiale degli azzurri del calcio a Parigi (4-2 all’Ungheria) e con il successo di Nearco, montato da Pietro Gubellini, nell’Arc de Triomphe. Un infastidito presidente della repubblica francese, Albert Lebrun, aveva commentato: Coppi e Bartali sono pronti a ripartire con le loro gesta. Rialzeranno il morale e l’orgoglio dell’Italia, che per essi si spaccherà in due.

Il 14 ottobre riprende il campionato di calcio. L’ultimo è stato quello del ’43. Il Torino della nuova coppia di mezzali, Loik-Mazzola, ha preceduto di un punto lo stupefacente Livorno. E’ stato il primo titolo della formazione granata attesa dalla leggenda. La stagione successiva la Penisola terreno di battaglia ha rivoluzionato la formula. Nel Meridione dove si combatteva ogni giorno niente partite. Nelle regioni sotto il tacco tedesco Mussolini ha preteso che si giocasse. E’ stato allestito un campionato di 12 gironi con la partecipazione di 73 squadre di A, di B, di C. Sulle tute del Torino è apparsa la scritta Fiat. L’ingegner Valletta, amministratore delegato dell’azienda automobilistica, ha promosso la sponsorizzazione in odio a Piero Dusio, ricco commerciante di tessuti, che ha strappato la Juve alla famiglia Agnelli e minacciava di lanciarsi nella produzione di vetture di lusso con il marchio Cisitalia aggiunto alla denominazione Juve. Nell’Italia devastata dai bombardamenti e dalle privazioni molti hanno premuto per militare nelle 73 squadre: significava evitare l’arruolamento forzoso nella milizia di Salò o la deportazione nei campi di lavoro in Germania. I giocatori granata hanno figurato da impiegati o meccanici della Fiat, quindi indispensabili allo sforzo bellico.
Il titolo è stato assegnato nel luglio ‘44 da un gironcino finale all’Arena di Milano fra il favoritissimo Torino, il Venezia e la squadra dei vigili del fuoco dello Spezia. Davanti ai pochissimi spettatori – era tanta la paura che le SS potessero approfittare dell’affluenza per una retata – i liguri hanno incredibilmente battuto il Torino 2-1 talmente sicuro di vincere da esser andato quarantott’ore prima a Trieste per un’amichevole ben remunerata (oltre ai soldi, forme di formaggio, cosciotti di prosciutto, damigiane di olio). La Figc (Federazione italiana gioco calcio) ha avuto un occhio di riguardo: hanno assegnato ai pompieri spezzini la Coppa Federale, nel 2002 diventerà uno scudetto «onorifico», e conservato al Torino la qualifica di campioni d’Italia.
L’avanzamento delle due armate angloamericane ha decretato nell’autunno ‘44 la conclusione di ogni attività ufficiale. Il pallone, comunque, mai ha smesso di rotolare. Il 1° aprile ’45, domenica di Pasqua, si è giocato Juve-Toro in memoria di un dirigente bianconero ucciso durante un bombardamento. L’incasso è stato devoluto alla famiglia. All’inizio della ripresa, sul 2-1 per la Juve, l’ennesimo scontro fra Valentino Mazzola e Felicino Borel ha prodotto vibrate proteste sulle tribune. Sono comparse le armi: hanno sparato a casaccio repubblichini, tedeschi, alcuni spettatori andati allo stadio con le pistole. Mezzora di sospensione, spalti svuotati, poi la partita è potuta concludersi: 3-1 per la Juve. La Fiat ha in seguito organizzato un torneo sospeso alle battute finali per il timore che la città stesse per diventare teatro dello scontro conclusivo tra i patrioti e le truppe della Wermacht. Il 15 aprile Ambrosiana, cioè Inter, e Milano, cioè Milan, si sono contesi all’Arena, stavolta con un migliaio di spettatori, la coppa Angelo Monti. Hanno avuto la meglio i rossoneri con un gol dell’ex azzurro Bruno Arcari.
Con la ripresa dell’attività l’Ambrosiana torna a chiamarsi Inter, il Milano Milan, il Genova Genoa: sulla sua panchina ricompare William Garbutt, già allenatore nel 1912. La Sampierdarenese e l’Andrea Doria, costrette da Mussolini a fondersi per dar vita a una pomposa La Dominante, tornano alle origini. Riappaiono vecchi presidenti in auge durante il fascismo: Renato Dall’Ara a Bologna, Umberto Trabattoni al Milan, Dusio alla Juve, malgrado i trascorsi e i legami con la famiglia Porsche: la denominazione è aggiornata in Juventus Football Club. La presidenza delle società appare, e spesso lo è, la via più breve per far dimenticare i trascorsi fascisti, le compromissioni con il regime, gli arricchimenti illeciti durante il conflitto. Il campionato rappresenta il palcoscenico più in vista, può aprire qualsiasi porta: di conseguenza, solletica ambizioni di qualsivoglia natura. Il mezzo più sbrigativo consiste nell’accattivarsi il sostegno delle tifoserie con acquisti in grado di far sognare, a dispetto di fame e miseria.
Il Milan compra Puricelli dal Bologna; la Juve Piola dalla Lazio; l’Atalanta ha Meazza nel doppio ruolo di allenatore-giocatore; il Torino, oltre a riprendere Grezar, Rigamonti e Maroso, ingaggia il mediano Castigliano dalla Biellese, il terzino Ballarin dal Venezia, il giovanissimo portiere Bacigalupo dal Genoa. In più gli restituiscono il suo stadio, il Filadelfia, distrutto da un bombardamento nel ’43 e destinato a trasformarsi in un santuario. Rimarrà inespugnabile fino al 1950. La leggenda può mettersi in moto. Il tessitore infallibile è il mago ungherese Ernest Erbstein, geniale allenatore ebreo, che ha pure esercitato da agente a Wall Street. Il presidente del Torino Ferruccio Novo si è esposto per aiutare lui e la famiglia a svicolare fra le retate delle SS. Il giocatore più pagato, Mazzola, guadagna 80 mila lire al mese, il quintuplo di un operaio, con i premi può superare le 100 mila lire (circa 4 mila euro). La popolazione è denutrita, moltissimi dormono all’addiaccio, ma al calcio e ai suoi protagonisti si concede ogni lusso: è il passatempo di tutti.
Anche la Figc viene utilizzata per rifarsi una verginità. Due intramontabili vecchi arnesi, l’ingegner Ottorino Barassi, che ha conservato sotto il talamo nuziale la coppa del mondo vinta dalla nazionale nel 1938, e l’avvocato Giovanni Mauro si dividono il potere. L’uno alla Federcalcio di Roma, l’altro a Milano in qualità di commissario per il Nord. E volete che qualcuno ricordi a entrambi di aver prosperato durante il regime? La serie A è divisa in due gironi: quattordici squadre in quello settentrionale, undici in quello centro-meridionale, da Firenze a Palermo unendo sette società di B alle 4 sopravvissute della massima serie. Le prime quattro dei due gironi disputeranno un girone finale. Al di là delle oggettive difficoltà di collegamento, di ponti abbattuti, di strade impraticabili, di binari divelti, le stesse autorità alleate hanno fatto capire che pure per il calcio sarà bene rispettare il confine della «linea gotica». Significa la distinzione tra due Italia, due economie, due realtà politiche ancora in antitesi.
Gli stadi si riempiono d’incanto sin dalla prima giornata. A Torino c’è addirittura il tutto esaurito per il derby. Vince la Juve 2-1 con il primo gol di Piola. Dopo tre anni e mezzo di forzosa assenza gli azzurri si riaffacciano nell’agone internazionale grazie alla generosità pelosa degli svizzeri: dovevano giocare con la Spagna tiratasi indietro alla vigilia, allora ci hanno chiesto se ci andava di prenderne il posto. L’amichevole di Zurigo (11 novembre ’45) suscita le stizzite reazioni delle Potenze vincitrici: valutano prematuro lo sdoganamento elvetico nei nostri confronti. Anche stavolta funzionano l’antico carisma del nostro ct Pozzo, che ha nel collega elvetico Rappan un convinto estimatore, e le benemerenze acquisite da Barassi con l’aver preservato la preziosa coppa Rimet dalla razzia nazista. Nella domenica di pioggia Pozzo conserva tre campioni del mondo del ‘38, Piola, Biavati e Ferraris II; intorno le forze fresche del Torino, Ballarin, Maroso, Grezar, Castigliano, Mazzola, Loik, e due juventini, il portiere Sentimenti IV e Carletto Parola, l’imponente centromediano venuto su dal vivaio. Il 4-4 racconta di una squadra in affanno.
Nove giorni più tardi s’inizia il processo di Norimberga ai gerarchi nazisti accusati di crimini contro l’umanità. Ma l’attenzione da noi si concentra sulle ricorrenti accuse a Parri di far troppo pesare il suo essere per la Repubblica. E’ un modo elegante per avversare il proposito di tassare il capitale. I più accaniti sono i liberali. Lamentano il distacco fra Paese legale e Paese reale, un leitmotiv eterno. Nella sostanza li impensierisce la concorrenza de L’Uomo qualunque: il 7 novembre Giannini ha pubblicato il programma del Fronte Qualunquista, la cui nascita è prevista entro il febbraio del ’46. E i liberali rappresentano un bersaglio privilegiato per aver rifiutato una sorta d’inglobamento. E’ stato Benedetto Croce a opporsi al progetto di Giannini: i colleghi di partito non si sono potuti esimere dall’aderire. Sanno che gran parte del prestigio e dei voti da conquistare nei prossimi cimenti elettorali dipendono dal prestigio pure internazionale del filosofo, che non si è inginocchiato a Mussolini.
La voce del monarchico Croce si alza contro la tendenza serpeggiante nel governo di assegnare alla costituenda Costituente la scelta fra Monarchia e Repubblica. La prima non avrebbe scampo: le sue uniche speranze sono riposte in una consultazione popolare, che consenta, per esempio, di sfruttare il sentimento favorevole a Umberto degli elettori democristiani spesso in controtendenza rispetto ai loro rappresentanti. Il 22 novembre i ministri liberali rassegnano le dimissioni. Il 24 Parri li imita denunciando un «colpo di stato», espressione di cui poi si scusa. Il clima è viepiù arroventato da una becera campagna contro Nenni. Viene ricordato che nel ’19, sulla scia dell’antica amicizia con Mussolini, con il quale aveva condiviso l’opposizione all’invasione della Libia, fondò a Bologna il primo fascio da combattimento. Assieme a lui due futuri ras dello squadrismo, Dino Grandi e Leandro Arpinati. Nenni aveva avuto il torto di prendere sul serio lo spirito rivoluzionario e repubblicano dell’adunata milanese di piazza San Sepolcro. In breve si sarebbe accorto della tremenda svista, avrebbe ovviato con un’opposizione senza cedimenti a onta dei prezzi personali.
La scelta del presidente del consiglio è problematica. Tramontano il candidato di Umberto, il vecchio Orlando, e il suo desiderio che nella compagine ministeriali entrino Bonomi, Nitti, lo stesso Orlando: una corsa al passato senza senso alcuno, se non quello di poter contare sulla vecchia guardia monarchica, ormai fuori dai giochi e dalla Storia. Ancora vigente l’ostilità britannica a Sforza, la candidatura De Gasperi avanza per forza d’inerzia. Dovrebbero essere confermati i sei partiti del precedente esecutivo, ma il decalogo proposto dai liberali è giudicato da Togliatti assai simile al programma dell’Uomo Qualunque, ormai definito proto fascismo. Si prospetta, quindi, l’esclusione dei liberali con notevole sconcerto della casa reale, del Vaticano, delle autorità alleate, degl’industriali da mesi in contrasto con il governo a causa delle epurazioni abbattutesi su molti di essi. I casi più eclatanti riguardano Alberto Pirelli, che con Mussolini si è scontrato, e il duo della Fiat Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta. Il vecchio senatore, tra i massimi beneficiati dal fascismo, è malandato. Dal ’39 il bastone del comando è nelle solide mani del ragioniere massone di vaglia. Si è barcamenato con i tedeschi, però non ha convinto il Cln, irremovibile nell’imporre l’accantonamento. Il comunista Giorgio Amendola ne ha addirittura preconizzato la condanna a morte. Tuttavia il consiglio di gestione insediato dallo stesso Cln va subito nelle curve. Da più parti si spinge per un ritorno al passato; i liberali ovviamente hanno fornito un appoggio, ma con loro fuori dal governo che cosa accadrà agli epurati, per non parlare dell’impresa privata?
Nonostante si sia speso con i suoi e con gli alleati, De Gasperi in una notte rimescola le carte. Ha un colloquio con Umberto, che gli richiama l’impegno di una maggioranza a sei. Scrive una lettera ai liberali con ampie assicurazioni sul programma. Il 10 dicembre il nuovo governo giura nelle mani del Luogotenente ed erede al trono. De Gasperi conserva anche gli Esteri; Nenni ottiene la vicepresidenza e il ministero per la Costituente; Togliatti la Giustizia; Scocimarro le finanze; Corbino il Tesoro; Romita gl’Interni; Brosio la Guerra; La Malfa la Ricostruzione; Scelba le Poste e Telecomunicazioni; Lombardi i Trasporti; Molè la Pubblica Istruzione; Gronchi l’Industria e Commercio; Cattani i Lavori Pubblici. I liberali si adattano: alla competenza, per la quale si sono esposti, è stata anteposta la militanza nel Cln. Tuttavia anche questa è un’apparenza: il primo ministero De Gasperi chiude la fase dell’emergenza, della convivenza forzata, della possibile rivoluzione dietro l’angolo.
Questo trentino asburgico prestato all’Italia, come Cavour era stato un francese prestato ai Savoia e per troppo poco tempo all’Italia, incarna la rottura con il passato, sia esso il ventennio, sia esso i venti mesi di guerra civile. A 64 anni De Gasperi è «un uomo nuovo» dal considerevole cursus honorum, ma del tutto sconosciuto a coloro che guiderà per sette, intensissimi anni. Nato A Pieve Tesino (il cognome originale è Degasperi), laureato in lettere, giornalista, propugnatore di un’autonomia ben distinta dall’irredentismo del suo amico Cesare Battisti, nel 1911 è stato eletto nel parlamento di Vienna. Ha rappresentato le istanze dei tanti cattolici della zona, lui stesso ha studiato grazie alla generosità di parroco e vescovo, convinti che l’impero dalle molteplici etnie avrebbe assecondato le loro aspirazioni. Il conflitto lo ha intimamente dilaniato: si sentiva italiano e si sentiva cittadino di uno Stato, che gli aveva fornito la possibilità di emergere. Allorché Vittorio Emanuele III e Diaz sono andati a Trento per festeggiare la vittoria, li ha ricevuti una delegazione irredentista, in cui De Gasperi non ha avuto spazio.
A Roma si è legato con don Sturzo, ha partecipato alle dispute del partito popolare, è stato eletto in Parlamento, ha preso sempre più le distanze da Mussolini. Nel ’27, in treno con la moglie diretto a Trieste per sfuggire alla morsa stringente del fascismo, è stato arrestato. Aveva documenti contraffatti e un passaporto scaduto. Condannato a due anni e mezzo di galera, ha riacquistato la libertà nel luglio del ’28, ma senza un’occupazione e tenuto costantemente d’occhio, nonostante la sua opposizione al regime abbia prescisso da proteste eclatanti. E’ stato giocoforza rivolgersi alla Chiesa proprio nel periodo, in cui Pio XI definiva «uomo della Provvidenza» Mussolini, assieme al quale il cardinale Gasparri, Segretario di Stato, ha predisposto il Concordato.
De Gasperi è stato assunto alla Biblioteca Vaticana con la qualifica di «collaboratore soprannumerario addetto al catalogo degli stampati». Stipendio di 1500 lire (circa 1400 euro) al mese. Nel ’33 il cardinale Tisserant ha rifiutato un aumento, Pio XI (Achille Ratti) mai l’ha voluto ricevere. Promosso segretario ha ricevuto il sospirato aumento, 2000 lire. In quelle sale ha conosciuto ed apprezzato il giovanissimo studente Giulio Andreotti, ma della pluridecennale esperienza conserverà un ricordo amarissimo. Il suo antifascismo sarà irrobustito dalla considerazione che il regime aveva privato gl’italiani non solo della libertà, ma anche della possibilità, a quanti lo contestavano, di lavorare, di guadagnare, di mantenere la famiglia, sempre che non li avesse privati della vita.
De Gasperi non possiede l’oratoria trascinante di Nenni, l’intelligenza luciferina di Togliatti, gli appoggi internazionali di Sforza. Non è massone. La sua fede religiosa esclude ogni bigottismo, ogni pretesa di superiorità morale. Si nutre d’ideali, non d’ideologismo. Nella faccia, che ha lo stesso taglio della pietra, alberga un’espressione severa: raramente, almeno in pubblico, si apre al sorriso. L’abitudine di tenere le mani in tasca ne aumenta l’impaccio. La sua oratoria, lontana da qualsiasi sollecitazione demagogica, spiega, ma non eccita. Il grigio dei suoi abiti pare trasmettersi ai suoi atti. Non crede alle rivoluzioni, ai progetti messianici, crede ai piccoli passi nella continuità dello Stato, per quanto l’Italietta del ’45 ben poco abbia da spartire con l’Austria-Ungheria della sua giovinezza. E’ un conservatore, che ha imparato dai rivolgimenti della Storia: bisogna assecondare il futuro, favorire la crescita delle masse, che per lui s’identificheranno nei contadini e negli operai trentini. I braccianti senza lavoro del Meridione, gli operai con il fazzoletto rosso delle fabbriche settentrionali rimarranno nel suo giudizio un mistero. Ha la capacità di far sentire al sicuro i burocrati e i tanti italiani, che hanno attraversato il regime, che approvano il mantenimento di leggi promulgate dal fascismo e valutate efficaci.
De Gasperi è di tradizioni monarchiche, però comprende che dopo la firma delle leggi razziali, della dichiarazione di guerra, dopo la fuga a Brindisi, la persistenza sul trono di un re, chiunque esso sia, dividerebbe in modo insanabile il Paese. Per provare a unirlo serve la repubblica. Ma resta un arbitro imparziale, non demanda la scelta alla Costituente, dove la Monarchia non avrebbe avuto chance. E’ probabile che sulla risoluzione di affidarsi al referendum pesi la voglia di sollevare il proprio partito dall’obbligo di pronunciarsi, inevitabile se fosse spettato all’Assemblea Costituente decidere. Il governo decide che il 2 giugno ’46 gl’italiani, per la prima volta anche le donne, saranno chiamati a eleggere i componenti della Costituente e a scegliere l’assetto istituzionale.
















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