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Capitolo primo
Un Paradise tutto mio


Andavamo verso il buio. Il cielo si era chiuso peggio dei nostri cuori.
Ognuno portava la pena di un futuro sconosciuto. Gli altri dieci passeggeri della Laura Keene erano paisà che rientravano in Italia per controllare quanto fosse sopravanzato alla guerra.
Provenivano dai posti più disparati degli Stati Uniti: niente sapevano di Nuovaiocche e niente volevano sapere.
Mai sentito parlare dell’Hollywood. Manco lo dissi che io ci suonavo il piano all’Hollywood, il locale di Frank Costello e di Charles Luciano. Non l’avrebbero considerato un lavoro: per loro le mani dovevano servire ad arare campi, a tirare su palazzi, ad avvitare bulloni. Già avevano mostrato stupore davanti al mio nome: Willy Melodia? E che nome è?
Troppo americano, che torna a fare in Italia?
Figuriamoci se avessi raccontato che a volermi in Italia era Luciano, il numero uno dei compari che si erano fatti rispettare all’America, malgrado questo rispetto fosse valutato in un modo sui marciapiedi del Lower East Side e in un modo completamente diverso nelle aule dei tribunali.
Non tacqui sui miei rapporti con Luciano per ciò che di lui scrivevano i giornali, bensì per il motivo opposto: i miei compagni di traversata proprio non lo conoscevano. Gli unici italiani noti erano il papa e Mussolini. Almeno metà di quei paisà si dicevano convinti che Mussolini fosse ancora vivo: troppo bene al Paese aveva fatto perché gli potesse succedere qualcosa.
Erano le confidenze spicciole che ci scambiavamo al tavolone dove venivano consumati pranzo e cena, compresi nel prezzo del biglietto; avevano però dimenticato di specificare che sarebbero state servite le stesse razioni trasportate dalla Laura Keene per le truppe in Europa: carne di montone, biscotti, scatole di fagioli, barrette di cioccolata, il caffè solubile da sciogliere con l’acqua non proprio pulitissima della nave. Poteva andare bene in tempo di guerra e al fronte, ma in tempo di pace e con noi che venivamo dall’America parve un presagio di ciò che avremmo trovato al paesello.
Per fortuna io non fumavo e potevo scambiare le cinque sigarette comprese nella razione con la frutta e con il vino che gli altri, più previdenti, avevano portato da casa.

Oltre alle razioni militari, la Laura Keene era stipata di sacchi di grano per sfamare i connazionali. Di cabine ne contava poche.
Costava la metà delle navi passeggeri con destinazione Napoli, Genova, Palermo, di conseguenza le comodità stavano a un decimo.
Io ero già salito a bordo venti mesi prima per salutare Luciano rispedito in Italia con il foglio di via.
Allora, nel febbraio del ‘46, non immaginavo che mi aspettasse lo stesso destino. Intendiamoci: nessuno mi aveva espulso, non ero stato dichiarato indesiderabile. Me l’aveva chiesto Luciano di seguirlo in Italia, per aprire un locale a Taormina. E non veniva previsto che rispondessi no.

La cabina che era stata assegnata a Luciano, nella quale assieme a Meyer Lansky e a Frank Costello avevo partecipato alla sua ultima cena americana, l’occupavano ora due fratelli della Basilicata. Erano partiti giovanissimi nel ‘25 e dal ‘40 non ricevevano più notizie dalla famiglia. Tornavano con l’animo in subbuglio. E chi non l’aveva, per un motivo o per l’altro?
Lamentavamo storie di comune infelicità tutte somigliantisi, a causa delle quali finivamo con il compiangerci prima di scappare in cabina a rivoltarsi nelle cuccette troppo anguste per contenere anche i ricordi. Così mi rifugiavo sul ponte a fissare imbambolato la nuvolaglia con il colore della pece. Ci vedevo scorrere le ombre della mia esistenza decisa dagli altri. La domanda restava una: dov’era che avevo svoltato dal lato sbagliato? Per ore e ore mi perdevo in quella caccia al tesoro sprecato.
Ero convintissimo di aver avuto in mano il biglietto vincente della lotteria e di averlo smarrito in una delle mie cento giravolte.
Con me il 71 si trasformava sempre in 17.

Sulla Laura Keene furono otto giorni di rimpianti, d’insonnia, di fantasmi. E i fantasmi dei morti, a differenza di quelli dei vivi, mi attorcigliavano le viscere. Non credo di aver più vissuto una settimana così cupa. Che differenza con la traversata sulla Melba per raggiungere l’America nella primavera del ‘31. Nonostante lutti e malinconie, nonostante il malacarne di Marsala e i suoi carusi incaricati di tenerci a bada, avevo respirato l’aria inebriante dell’avventura, del cambiamento.
Vivevamo tempi nei quali si pensava che ci sarebbe stato un domani. Sperare era sembrato quasi un obbligo. Viceversa, alla fine del viaggio sulla Laura Keene ero molto più depresso che alla partenza. Ma anche gli altri passeggeri non scherzavano.
Eppure, cinquantacinque anni dopo sto qui a ripensare a quel viaggio con un misto di nostalgia e di dolcezza. Allora anche nei momenti di sconforto uno... persino un meschinazzo come me poteva immaginarsi che qualcosa di bello sarebbe capitato. Ma adesso, a novantadue anni, che cosa mi resta? Solo fare la conta dei morti, dei tanti che non ci sono più. E stamattina ci si è messa pure la televisione con l’annuncio che in Arizona è morto Joe Bonanno. Sono proprio rimasto l’ultimo. Però quando morirò io, chi si ricorderà di Guglielmo Melodia detto Mino in via D’Amico a Catania e detto Willy all’America?

Malgrado fosse ottobre, l’ottobre del ‘47, Napoli ci accolse con un sole caldo, l‘aria profumava di aromi dimenticati. La vedevo per la prima volta, non mi pare che in questo mezzo secolo sia molto cambiata. Sì, forse c’è qualche stabile diroccato in meno, però la sostanza sempre quella è. E poi i napoletani, al pari dei siciliani, hanno la prerogativa che a Mergellina o all’estero sempre alla stessa maniera si comportano.

Purtroppo non mi sentivo a casa, mi riferisco all’essere in Italia. Anche la lingua risultava di difficile comprensione.
Fui immediatamente circondato da un eccesso di servilismo e di falsità, su cui la miseria stendeva un manto imperforabile.
La miseria era il vero tratto caratteristico di Napoli. Una miseria simile non la ricordavo manco a Catania e non l’ho più rivista.
Avendo imparato che lo show ha bisogno di quattrini se vuole prosperare, capivo perchè Luciano avesse scartato Napoli per aprirvi il locale.

Ero stato un forestiero all’America, ero un forestiero in Italia mentre mettevo in moto la Delahaye 145 Chapron coupé grigio ferro: per farla ospitare assieme ai sacchi di grano aveva dovuto spendere una parolina Joe Adonis. D’altronde da lui l’avevo comprata: tremila dollari erano pochi per quell’auto da sogno, ma erano tanti per una vettura impestata, destinata a finire in fondo all’oceano se non l’avessi portata via con me. Per fortuna assolveva benissimo al compito di farmi propaganda.
Sul molo mi chiamavano "mister", alcuni addirittura "dottore"" offrendo ogni tipo di servizio. Fui dispiaciuto che mia madre non assistesse alla scena.
I bauli proseguirono per Catania col treno, io uscii dal porto in mezzo agli inchini. Giungevo da Nuovaiocche, guidavo quel po’ po’ di meraviglia: dovevo per forza essere uno con i piccioli.

Luciano abitava all’inizio del lungomare, al secondo piano di una palazzina dell’Ottocento; sulla scala luccicava una ringhiera di ottone con passamano di legno scuro. L’appartamento era imponente. Luciano preferiva le tapparelle abbassate, la penombra aumentava la sua solitudine. Le contrarietà gli avevano tolto la certezza di camminare un passo avanti al mondo. Nonostante la rete di amici, di cui godeva anche in Italia, fiutava che le autorità cercassero la minima scusa per incastrarlo. Aveva la testa fissa a Nuovaiocche. Si teneva informato su qualsiasi sussurro. Socchiudeva le palpebre dietro le spesse lenti, vaticinava il futuro con una padronanza che nemmeno i maghi di carte e di pendolino si permettono. Prevedeva un periodo di turbolenza, soprattutto per Costello: Genovese e quell’altra bestia di Anastasia avrebbero combinato casini, liti, ammazzatine finché qualcuno non avesse sparato in faccia a uno e messo in tasca all’altro una bustina di droga a beneficio dei federali.

- Genovese - sentenziò Luciano - punta a spodestare Costello, Anastasia vuol spedire al camposanto i fratelli Mangano.
Entrambi mirano a diventare il capo dei capi: non avranno scrupoli nell’eliminare i possibili rivali -.

Secondo Luciano, potevano andarci di mezzo anche Moretti e Bonanno.
Stando a Napoli, e con Lansky ormai interessato a gestire il suo ingente patrimonio, Charlie non intravedeva chi potesse fermare i due: non Adonis, pronto a trattare la propria neutralità, meno che mai Gambino, probabilmente già in sintonia con Genovese.

- S’annunciano tragediate e tragediatori, - concluse Luciano pieno di stizza. - E così perderemo di vista la partita che c’è da giocare in Italia.
Quale partita, avrei voluto chiedere? Ma non ce ne fu bisogno.
- Noi qui serviamo all’America, potremo farci pagare profumatamente il disturbo. Però bisognerebbe farlo capire a quell’assatanato di Genovese e bisognerebbe cambiare la testa ad Anastasia oppure tagliargliela di netto, che si fa anche prima...

In simili circostanze a me spettava tacere e fingere di comprendere quei ragionamenti di alta politica. Luciano non cercava un interlocutore, non avrebbe saputo che farsene. Le sue erano rivelazioni a voce spiegata, di chi l’ascoltasse non poteva fregargliene di meno.
A patto che un minuto dopo avesse dimenticato i punti e le virgole, figuriamoci i contenuti.

- Quelli di Washington hanno l’incubo dei comunisti, - lavoce di Luciano era un sibilo, - e il signor Togliatti con le sue minacce fa il loro gioco. Di conseguenza quelli di Washington pur di non essere costretti a sloggiare dall’Italia sono disposti a firmare ogni tipo d’accordo con chi può aiutarli, cioè con noi. Il Paese è distrutto, bisognerà ricostruire dall’a alla zeta: potremo entrare nelle banche, negli appalti, nelle aziende farmaceutiche... Hai mai chiesto a Genovese che cosa gli ha reso il commercio della penicillina in Sicilia dopo lo sbarco? Ci ha pagato la sua assoluzione in tribunale a New York -.

Lo disse senza nascondere l’ammirazione: lo voleva morto, tuttavia onore alla destrezza.
Gli occhi di Charlie fissavano un punto imprecisato dell’orizzonte ben oltre la parete del suo appartamento.
Nessuno era in grado di leggere l’infinito come lui. - Quest’Italia - riprese Luciano - per noi può valere Cuba: bisinissi al cento per cento, però dobbiamo mostrarci all’altezza, avere la stessa concretezza degli ebrei di Hollywood. Si sono presi il cinema e ne hanno fatto merce di scambio con petrolieri e banchieri: volete che raccontiamo l’America in un certo modo? Allora dateci i finanziamenti a tasso agevolato.
Sì, ogni tanto producono Furore o Quarto potere, ma durante la guerra senza il cinema il governo se lo sognava di piazzare i buoni del Tesoro. E senza i soldi dei contribuenti stavano ancora a combattere con le fionde contro giapponesi e tedeschi. Tu puoi informarti meglio di chiunque altro: domandalo a tuo cognato Marc Thal, il marito di Josephine...

L’accenno a Josephine mi dette un brivido. Pina Polizzi, sorella di mia moglie Rosa, detta Josephine all’America, era stata la tenutaria di uno dei quattrocento bordelli di Luciano a Nuovaiocche. Vito Genovese diceva di lei che fosse l’unica donna capace di praticare con la fica gli stessi giochetti solitamente praticati con la bocca. Io non posso confermarlo, mai avendola provata, però qualche qualità la cara Josephine doveva possederla. Non per niente aveva sposato un affezionato cliente, Marc Thal per l’appunto, avvocato ebreo di Los Angeles, assai ammanigliato con i boss di Hollywood, nel senso della mecca del cinema. E proprio lì si era trasferita Josephine dopo aver incastrato con la sua testimonianza nel processo del ‘36 il mio benefattore, Charlie Luciano: trent’anni di galera, se nel ‘42 non fosse intervenuta la trattativa per liberare il porto di Nuovaiocche dai fantomatici sabotatori nazisti.

Ma Luciano non aveva citato Josephine per stuzzicarmi. Lei e suo marito erano funzionali al quadro che stava disegnando, il resto non contava.
- Ho paura che gli amici di New York - disse Charlie - siano fermi a quando giocavamo a guardie e ladri con la polizia giù al porto.
Le epoche cambiano. Adesso c’é l’aereo, c’é la bomba atomica, mi raccontano che stanno lavorando a qualcosa di simile al cinema da impiantare nelle case. Gran parte del mondo cui eravamo abituati è stato già accantonato nel ripostiglio come l’Oss, che ci ha fatto un gran comodo. Cancellato dalla mattina alla sera assieme al suo inventore, l'avvocato Donovan, Bill il pazzo. Te lo raccomando... Aveva di buono che apparteneva alla stessa parrocchia degli amici...
Un cattolico, l’unico cattolico della cerchia di Roosevelt.
Infatti nel creare la sezione Italia, in vista dell’invasione della Sicilia, si affidò a paisà di nostra conoscenza.
Insomma, trovammo la maniera di spiegarci e di procedere appaiati. Fu un buon affare per loro e per noi. Ma ora, con il servizio segreto dei fratelli Dulles appena sverginato, sarà diverso.

Per me era arabo. Li avevo vissuti anch’io quegli anni di Nuovaiocche, tuttavia di niente mi ero accorto. E dire che una volta Costello mi aveva condotto a uno degli incontri riservati organizzati con Luciano e con l’avvocato Polakoff nel carcere di Albany.
A Luciano i vecchi tempi procurarono una smorfia di scarsa sopportazione. - Me li ricordo i Dulles all’inizio degli anni Trenta a New York, tenevano lo studio in un palazzo da quattro soldi, pietra chiara e mattoni rossi, dalle parti di Wall Street.
Non è che avessero una folla di estimatori, però esibivano già la tracotanza di chi ritiene che l’America sia cosa propria: a loro e solo a loro spetta comandare, al resto del mondo obbedire. Erano nazisti e lo sono rimasti, per quanto da buoni massoni si siano dovuti mettere di traverso alle eccessive pretese di Hitler. Te lo ricordi?
Ma che cosa mi dovevo ricordare? Mai bazzicati i potenti, io ero tipo da ingresso dei fornitori.

Luciano nemmeno mi guardava, a malapena sapeva che stavo nei paraggi. A lui bastava che non perdessi il filo.
- Ora avranno a disposizione pure un servizio segreto. Allen al solito si occuperà degli affari e Foster, con la sua aria da fratello maggiore obbligato a ripulire la sporcizia del fratellino, lo coprirà politicamente. Immaginati, Willy, che cosa si attendono da noi: che ci mettiamo con il culo a ponte e magari chiediamo scusa per le spalle...

Stavolta mi guardò. Dietro le lenti gli occhietti saettavano perfidi, anche quello con la palpebra semiabbassata, ricordo della notte in cui doveva morire e non morì. Io rimediai la solita figura di Pepè.
Luciano scosse il capo: mi conosceva, sapeva che le prese di posizione non mi appartenevano.
- Vedi, Willy, i due fratellini hanno messo in piedi quest’agenzia a loro immagine e somiglianza.
Sarà l’organismo per imporre la supremazia bianca, la loro supremazia bianca: protestante, massonica e con la puzza sotto il naso. Più o meno ciò che hanno già fatto nel Sud con il Ku Klux Klan. L’Oss fu il regno degli avventurieri e dei puttanieri, ma avevano il sogno di battere Hitler e ci sono riusciti.
La Cia sarà il regno degli invasati con il sogno di sottomettere il mondo. D’altronde i Dulles, pur essendo protestanti, sono sfegatati ammiratori di Ignazio di Loyola e dei suoi esercizi spirituali...
I gesuiti, i campioni della menzogna a fin di bene... Ti rendi conto di che cosa significhi? Stragi, minchiate e crociate al grido di "l’America lo vuole", benché siano abbastanza intelligenti da mascherare il tornaconto personale con la difesa della democrazia contro la minaccia comunista.

Quello di Luciano non era lo sfogo di chi vede in pericolo le proprie idee, bensì i propri affari. Non mi sbagliavo.
- No, i Dulles non mi piacciono, - affermò convinto. - E noi non piacciamo a loro e ai loro amichetti. Ci attribuiscono anche i peccati che non abbiamo commesso.
Luciano tentò di assumere l'espressione dell’innocente vittima dei mali pensieri altrui, ma a lui quella posa non riusciva.
- È tutta colpa dello sciancato, per dirla con Genovese... diRoosevelt.
Noi nel ‘32 gli demmo una mano perché lui l’avrebbe poi data a noi: dollari e voti in cambio della concessione delle slot-machine alla società di Lansky. Abolivano il proibizionismo e bisognava sostituire i tanti piccioli che ci aveva fruttato.
C’eri anche tu, no?

Certo che c’ero, ma io suonavo e quando non suonavo mi risultava difficile comprendere i progetti dei compari.

- Lo sciancato, tra l’altro, ci conveniva più di Hoover, il presidente in carica: costui aveva promesso che in caso di rielezione avrebbe affrontato con grande durezza e risolto il problema dellùordine pubblico. Il sottinteso era che lùunico problema dellùordine pubblico fossimo noi... Dunque, non dico che avremmo votato lo sciancato pure gratis, ma concludemmo un buon accordo...

Irruppe la cameriera con lo strofinaccio e un’espressione perplessa.
- C’è uno che la cerca...
Al fastidio per esser stato interrotto Luciano aggiunse lo stupore. Non aspettava visite.
- Chi è?
- Un amico, dice...
- Un amico degli amici? - ghignò Charlie.
La cameriera si arrese allargando le braccia.
- Fallo passare.

Charles Gambino pareva pronto per sfilare a Times Square, almeno lo sarebbe stato se fosse riuscito a cancellare la goffaggine e l’inadeguatezza, che neppure il tre pezzi di sartoria riusciva a nascondere. Manco lo sapevo che fosse tornato in Italia.
Non ci si vedeva da quando praticavamo il mercato nero dei bollini di benzina a Nuovaiocche. Lui ci si era arricchito, io ci avevo campato.


Luciano gli concesse baci, abbracci, male parole con il sottinteso che lui era lui e Gambino un bravo ragazzo in attesa di crescere.
Fui salutato a stento, sicuro che levassi l’incomodo. Ma Charlie mi fece un segno evidente di restare, in modo che pure Gambino comprendesse che facevo parte dell’arredamento.
- Allora, Gambino di un Gambino, dimmi pure: sono quiche ti ascolto. Mi hanno detto che avevi notizie per me. Veramente me l’hanno detto un mese fa.
- Don Luciano in Sicilia c’è vento di tempesta. Tutti i Greco di Palermo si sono messi a litigare fra loro.
Hanno cominciato dalla panca di una chiesa e sono arrivati alle pistolettate in strada.
- Mi deve importare?
- No, lo raccontavo per spiegare il ritardo. Don Luciano, gli amici si sono mossi a New York e a Washington.
La politica la possiamo persuadere a chiudere un occhio, ma sono i banchieri di Wall Street che non vogliono sapere del suo ritorno in America. Come se avessero un conto da chiudere con vossia.
- Ce l’hanno, ce l’hanno... - disse Charlie più divertito che indispettito. - Ne stavo parlando proprio con Willy.
Riguarda sempre l’elezione di Roosevelt, la prima nel ‘32 che poi gli avrebbe spianato la strada per le altre tre.
Purtroppo, per quelli delle banche e di Wall Street il nostro appoggio risultò più fastidioso di un dito nell’occhio.
Dopo la crisi del ‘29, i signori Morgan e i loro colleghi pretendevano di continuare a pisciare in testa al mondo stabilendo le regole del gioco: cioé fare i soldi sulla fame degli altri. Roosevelt da quest’orecchio non ci sentiva: per lui dovevano essere banchieri e petrolieri a tirare fuori i soldi per consentire alla povera gente di stare meglio.
Assai più rivoluzionario della rivoluzione francese. E noi, addirittura, l’aiutammo a vincere...

Luciano gongolò: lo divertiva raccontare i casini del gioco grande, dava la misura del potere che aveva gestito.
- Te lo giuro, Gambino di un Gambino: io, Lansky, Costello eravamo all’oscuro e al di fuori di tutto.
Che ne potevamo sapere di quali fossero gli interessi in ballo. Noi pensavamo ai cazzi nostri e niente più: Roosevelt ci conveniva più di Hoover... L’ho appena spiegato a Willy. I Morgan e i loro tirapiedi ci videro, invece, una congiura universale. Che poi anch’essi stavano nel Partito democratico, solo che non volevano Roosevelt. Alla presidenza volevano qualcuno più malleabile, che non si preoccupasse della mezza America senza un cent e senza un tozzo di pane. Per cui ebbero un motivo ulteriore per odiarci.
Per quanto mi sforzassi, non ce li scorgevo Charlie e gli altri nei panni dei buoni patrioti, che avevano preso a cuore le sorti dei poveracci.
- E se lo ricordano ancora? - Anche Gambino doveva pensarla all’incirca come me.
- Te lo rammenti l’attentato a Roosevelt, nel ‘33, prima dell’insediamento alla Casa Bianca?
Gambino non lo so, ma io lo rammentavo bene. Per settimane Costello aveva proibito di suonare roba italiana al piano bar dell’Hollywood.
E molti di mia conoscenza avevano preso l’abitudine di uscire armati per timore di fare la stessa fine dei compaesani nella caccia all’uomo di fine Ottocento.
- A sparare contro Roosevelt fu Zangara, italiano, operaio,comunista... Chissà se era davvero comunista.
L’arrostirono in un amen. E gli sbirri fecero attenzione a non chiedere se qualcuno gli avesse messo la pistola in mano.
Poi, l’anno seguente, ci fu un mezzo tentativo di colpo di stato con i soldi delle banche... Pare che Roosevelt si sia salvato grazie ai parenti della moglie.

- Insomma, don Luciano, hanno evidentemente la nostra stessa memoria. La conclusione è che non la vogliono vedere manco in fotografia.
Ecco quanto le dovevo dire. Per farla tornare, dovremmo inventarci qualche altra fantasia.
- Tu credi? - Charlie voleva significare di non credere chela sua assenza levasse il sonno ai comparuzzi rimasti all’America.
Ma Gambino non colse tanta sottigliezza. Voleva solo andarsene e Luciano l’accontentò, però non l’accompagnò alla porta, anzi rimase comodo in poltrona.
- Vedi, Willy, con chi abbiamo a che fare? Che li abbia aiutati a liberare il porto di New York dai sabotatori tedeschi...

Dovetti impedirmi di ridere: chi li aveva mai visti i nazisti al porto di Nuovaiocche. Luciano mi squadrò di mala maniera.
- Dicevo, prima li abbiamo aiutati al porto, poi abbiamo fornito gli indirizzi in Sicilia per dare una mano allo sbarco.
Questa è la riconoscenza. E i Dulles vengono da quello stesso ambiente, non te lo dimenticare mai.
Benché noi in Italia serviamo, continuano a soffrirci come un dito nell'occhio.


L‘amico mio scosse il capo sfiduciato: i due fratellini continuavano a essere più indigeribili di una lisca di pesce conficcata nella gola.


- Nessuno ha mai spiegato all’uno e all’altro che le guerre servono per fare la pace, non per passare da una guerra vecchia a una guerra nuova.
A lungo andare la guerra uccide anche il bisinissi.
Però in Italia comandano e con loro dobbiamo misurarci, se vogliamo ritagliarci la nostra fetta di torta.

Luciano mosse le mani a significare che non ci avrebbe rinunciato.
Ma a me che cosa ne sarebbe venuto? Perché mi dovevano riguardare la Cia, i Dulles, i gesuiti, il comunismo, la democrazia, le crociate, gli impazzimenti di Genovese e Anastasia?
Io puntavo ad aprire il night a Taormina.
Per questo ero tornato, per questo avevo abbandonato mia figlia Sarah.

- E l’avrai il tuo night a Taormina, - concesse Luciano conun mezzo sorriso, - i tempi, però, non sono maturi.
Bisogna comprendere se il vento tira da ponente o da levante.
Tu sei nato in una città di mare, dovresti conoscere l’importanza del vento...

Erano le occasioni in cui persino Giobbe avrebbe perso la pazienza, io però non ero Giobbe e non potevo consentirmi di perdere la pazienza.
- La prossima primavera si vota, - sentenziò Luciano con il sussiego di chi annuncia una grande scoperta.
- Il signor Togliatti sostiene che è sicuro di vincere. E per noi non sarebbe un bene. Ma non credo che gli yankee accetteranno di sloggiare.
Nulla di più e nulla di meno. Luciano tacque, a me spettava di essere sazio di quanto avevo appreso.

L’intesa fu che proseguissi per Catania, che salutassi la famiglia e che, infine, facessi un salto a Taormina per guardarmi intorno.
Luciano mi consegnò centomila lire e un numero telefonico di Messina, bastava domandare dello zio.
- Comunque non ti preoccupare, ti cerco io prima che ti finiscano i soldi.

Il viaggio sino a Reggio Calabria si trascinò interminabile. Diversi ponti erano da ricostruire, si deviava per sentieri sterrati attraverso campagne che non si erano messe in pari con le stagioni. Il caldo cresceva: una bottiglia d’acqua, una fontanella valevano un miraggio. Ai lati delle strade vendevano e offrivano dalle uova alle ragazzine.
Incontrai più muli e carretti che macchine, e queste erano in gran parte residuati traballanti di prima della guerra.
La mia Delahaye appariva piovuta da Marte, a ogni sosta si formavano crocicchi di bambini e di adulti con la bocca aperta.
Il ritorno dall’America cominciava a piacermi; godevo che gli altri mi giudicassero di un altro mondo, uno con i dollari, uno che aveva avuto successo. M’aiutava persino il mio italiano faticato, inframmezzato di tanti dialetti meridionali: mi dava la patina dello zio d’America rientrato pieno di quattrini.
Parlai in inglese per far colpo sulla ragazzona alla cassa della stamberga di Sala Consilina, dove vendevano il caffè appena fatto con quelle macchinette che si capovolgevano. Mi dava sangue ripartire con gli occhi di tanti e di tante, che mi morivano dietro.
La posso sparare grossa? In quegli sguardi non c’era invidia, ma voglia di emulazione.
Non so se mi spiego: traspariva una grande energia, la stessa che avevo spiato in molti paisà del Lower East Side.
La sensazione era che l’Italia al completo si fosse rimboccate le maniche, avesse avviato la propria ricostruzione.

Sul traghetto a Villa San Giovanni imbarcammo tre auto. Molte donne, con la vestaglietta identica a quella indossata da mia madre quando ero bambino, portavano sul capo un cestino con la roba. Chi non poteva permettersi il cestino aveva le mercanzie aggiustate dentro un fazzolettone.
Pur essendo nato a Catania era la prima volta che attraversavo lo Stretto: per scappare a Nuovaiocche mi avevano fatto partire dalla Tunisia.

Messina era un cumulo di macerie ammonticchiate caoticamente.
I palazzi abbattuti superavano quelli in piedi. Sembrava che la guerra fosse finita il giorno innanzi, non quattro anni prima. Tutti, però, si davano da fare.
Sul viale incontrai l’uomo delle bibite con il panchetto degli sciroppi sulla testa e la quartara dell’acqua frizzante in mano: ero ripiombato nella Catania della mia infanzia.
Fermai la Delahaye e chiesi un completo, cioè limone, orzata, gocce di anice e selz. Quello, stupito, mi disse: allora vossia è dei nostri...
Mai qualcuno si era rivolto a me con il vossia.
Miracoli dell’America.

Impiegai due ore a percorrere la strada dei cento paesini da Messina a Catania.
Avevo dimenticato il mare di Sicilia, il lastrone lucido e immobile in cui specchiarsi, pronto a schiudersi meglio delle gambe di una femmina.
Dal mio posto di guidatore gli lanciavo le occhiate che si lanciano a una persona incontrata dopo molti anni, con la quale mai si è stabilita una vera confidenza, ma della quale ci si fida per istinto.
Mentre io guardavo il mare, gli altri guardavano il mio macchinone.
Imboccai via D’Amico che era già buio.
Mancavo da sedici anni.
La strada dell’infanzia, la strada dove avevo trascorso la mia giovinezza, fino alla fuga precipitosa verso l'America, era rimasta quella dell’ultimo giorno in cui ci avevo abitato. I rimasugli dell’afa estiva avevano spinto sul marciapiede quasi tutti gli abitanti delle case a pianterreno.
Poche porte avevano sostituito il vecchio tavolato con i battenti di vetro, le ante di legno continuavano ad avere in alto sulla destra il foro rettangolare grazie al quale, nelle sere stellate, mia madre indicava a noi figli il Carro dell’Orsa maggiore e il Carro dell’Orsa minore.
I vicini parlottavano, mangiavano insalate di pomodori e cetrioli; i mariti stavano in canottiera, le mogli si sventolavano con i cartoni che d’inverno servivano per attizzare la brace delle conche.
C’era sempre l’abitudine di alzare la voce per attrarre l’attenzione su una battuta considerata irresistibile, ma faceva troppo caldo perchè qualcuno ascoltasse.

Mia madre sedeva a gambe larghe con un bimbo in braccio e due che si rincorrevano intorno alla sua sedia.
Arrestai la Delahaye a pochi centimetri.
Scesi barcollante per la commozione.
Lei mi vide, stralunò.
La sua bocca si apriva e chiudeva, ma non usciva una sillaba.
Offrì il bimbo a braccia che non accorsero in aiuto. Provò ad alzarsi senza riuscirci.
Avanzai a piccoli passi in attesa di un assalto che non avvenne. Mi chinai verso di lei: ci toccammo a casaccio a causa del bimbo, che giustamente non ci stava a essere sommerso dall’abbraccio di uno sconosciuto.
- Minoooo... - finalmente le proruppe dal cuore.
Sgorgarono lacrime, qualcuno tolse il bimbo dalle sue braccia, così lei poté dedicarsi per intero a me.
Poi successe di tutto.
Via D’Amico venne in processione a studiare da vicino Mino, il figlio di donna Carmela, che era andato all’America per scampare il carcere, aveva sfondato con la musica - perché chi esce, riesce - s’era fatto attrici, ballerine, cantanti, femmine di tutti i colori e di tutti i continenti ed era tornato con un’auto lunga da qui a lì, che manco al cinema l’avete vista.
E che all’America mi avessero modificato il nome da Mino, diminutivo di Guglielmo, in Willy rappresentava la certificazione con il bollo del mio successo.
L’importante - disse un minchione di passaggio - è che Melodia eri prima e Melodia sei ora.

In via D’Amico esisteva un solo telefono: bastò per far scattare il passaparola.
Spuntarono conoscenti, curiosi, familiari. Facce un tanto al chilo, che garantivano di esserci frequentati nell’altra mia vita; cugini e zii, dei quali avevo perso ogni memoria; amici, che non avevo avuto.
Appoggiandosi a un bastone si fece avanti pure comare Marietta.
Era un rudere, aveva in pratica perso la vista. Mi passò e ripassò le mani sulle guance, mormorava "Minuzzo..." e piangeva.
Mia madre la fece accomodare sulla sedia, lei si conquistò un discreto auditorio raccontando delle mie imprese giovanili: così sentii riparlare di don Ferdinando il parroco e di Caterina, la perpetua rimasta incinta; di mastro Melo il tappezziere, una così brava persona che non avrebbe meritato di avere per moglie quella buttanazza che aveva sposato, e del cavaliere Zappalà, proprietario del negozio di dischi; del commendator Giuffrida, il primo a fidarsi del mio talento, e della Chère Ninon, la tenutaria del più frequentato casino cittadino, Les fleurs du mal: roba che oggi se la sognano - tenne a chiarire comare Marietta -, venivano da tutta la provincia, la domenica addirittura da Messina e Siracusa.
E venivano anche per ascoltare Mino al pianoforte, aggiunse convinta comare Marietta. Non era vero, eppure tutti finsero di crederle: volete mettere in dubbio le imprese di uno che per il no o per il sì è meglio tenersi buono?
Fu un ripasso particolareggiato di vicende oramai dimenticate.
A ogni nome scattava immancabilmente la domanda: ma è ancora vivo?

Spuntarono fratelli e sorelle incarogniti e ingrassati dal trascorrere degli anni.
Il primo ad arrivare fu Rinaldo. Non lo riconobbi.
Neppure lui mi avrebbe riconosciuto, se non fosse andato a colpo sicuro su quello al centro dell’attenzione.
Era il suo primogenito, Salvatore, il bimbo tenuto in grembo da mia madre.
Arrivò Concettina con due dei quattro figli; arrivò Agatella con tutti e tre i figli, tali e quali lei da sembrare che se li fosse confezionati da sola.
Nino scese da una Balilla scatarrante accompagnato dalla moglie. Era diventato identico a mio padre per come lo ricordavo io.
Nino sì che lo conoscevo, che sapevo com’era attorcigliato dentro. Ci univano gli anni felici di un’infanzia affamata, di un’esistenza inseguita in ogni dettaglio.
Assieme a Peppino avevamo occupato la stanza dove veniva conservato il carbone, per farci dormire nostra madre aveva cucito vecchi sacchi e li aveva attaccati al muro. Quando suonavo a Les fleurs du mal avevo dovuto pagare Nino e Peppino affinché coprissero i miei ritorni all’alba.
Eppure quando a Nuovaiocche avevo appreso dalla lettera di mia madre che Peppino era morto nella guerra di Etiopia non una lacrima mi era uscita.
L'abbraccio con Nino fu sincero. Sua moglie Giovanna esibiva occhi scrutatori e un certo disagio per la calca che aveva occupato casa nostra, il marciapiede, la strada, il marciapiede di fronte.

Attorno alla Delahaye s’era creato un passeggio circolare ininterrotto. Per ammirarla giunsero anche da via Francesco Crispi, da piazza Cappellini. Un nonno incitò il nipotino a partire subito per l’America: vattene appena puoi, torni con una meraviglia così, di quelle che neppure sulla "Domenica del Corriere" circolano, e ti metti a fare ’u signuruni a gambe accavallate.

Girava anche un bottiglione impagliato di vino rosso con un unico bicchiere che passava di labbra in labbra.
L’ultimo a presentarsi fu Orlando: mi ricordò Peppino, che il Padreterno l’assista. Chissà se in Africa hanno dato una degna sepoltura al povero fratello mio ammazzato con la camicia nera.
Con Orlando i baci, gli stringimenti furono di convenzione. Capii da subito che eravamo imparentati solo all’anagrafe.

- E tua moglie, tuo figlio?
La domanda di Agatella ruppe l’atmosfera di festa.
Il chiacchiericcio, i rumori, l’invidia cessarono di colpo. Tutti gli occhi puntarono verso l’alto, dove stavo io con il mio metro e novanta.
Mi fissò anche mia madre: la sua espressione invitava a non fidarsi.
- Stanno bene, risposi d’un fiato.
- E quando arrivano? insistette Agatella.
- Appena mi sistemo...
Mia madre suggerì di far compiere un secondo giro al bottiglione impagliato di vino rosso.
- Ma almeno avrai le foto, affermò la moglie di Nino, persuasa che l’assenza implicasse ben altri intrecci.
Dissi che all’America non si usava.
Uno, cui mai avreste detto buongiorno o buonasera, decretò che non era vero, che l’aveva visto lui al cinema un americano con la foto della moglie e dei figli nel portafoglio.
- Ma che ne vuoi sapere tu? obiettò Nino prima di rivolgermi uno sguardo preoccupato.

Chiusa malamente la parentesi sulla mia famiglia, ciascuno dei fratelli e ciascuna delle sorelle si sentì in dovere di rovesciarmi addosso la propria fetta d’infelicità.
Agatella aveva la pena di Antonio, il secondo dei figli, preda di svenimenti continui, che all’ospedale erano incapaci di spiegare; a Nino i cognati impedivano di farsi un bancone tutto suo alla pescheria; Concettina si lamentava dei tradimenti del marito; Rinaldo campava male alla giornata; Orlando, grazie al marito di Agatella, era entrato nella fabbrica del ghiaccio, però smaniava di rendersi indipendente. Malgrado i miei sbadigli, s’informò se ero pronto a investire per rilevare un negozio di tessuti in via Etnea: un affarone. Mi tenni sul vago: non avevo voglia di deludere i cento paisà che mi circondavano ammirati, spiegando di esser tornato perché ero un fallito all’inseguimento della propria ventura. Restai nel ruolo dello zio d’America, dissi a Orlando che del negozio di tessuti se ne poteva discutere, ma in un’altra occasione, dopo una bella dormita, una bella mangiata, una bella bevuta. Lui acconsentì, anzi si offrì di scarrozzarmi al risveglio: poteva farsi prestare la Fiat Topolino dal principale.
Avevo troppo sonno, troppa paura d’infognarmi nel passato per chiedere se la fabbrica del ghiaccio appartenesse ancora ai Puglisi, se a gestirla fosse Luigi, il fratello minore di Nino, lo ’ntisu, il caporione della mafia cittadina che mi aveva aperto le porte prima del casino, poi del mestiere di pianista. Catania già mi soffocava. Ma io che c’entravo con quegli uomini, con quelle donne, bramosi di soldi, di novità, di dicerie, avidi della vita altrui come i maiali delle ghiande?

L’assedio fu tolto che albeggiava, tuttavia rimasi sveglio. Smaniai nel letto alla ricerca di una soluzione.
Nonostante la lampadina penzolante dal soffitto illuminasse poco, rividi i muri luridi dei miei primi vent’anni. Il materasso affondava tra le assi di legno poggiate su due blocchi di pietra lavica, i crini da cui era riempito mi pungevano, annusavo odori aspri ormai sconosciuti. Non ero più abituato alla povertà vera. La casa di via D’Amico ne era intrisa centimetro dopo centimetro. Mia madre continuava a cucinare sulla carbonella in mezzo a pareti annerite dalla fuliggine; la tenda di cotonella costituiva ancora l’unica separazione dal cesso screpolato; una vecchia madia era stata adibita ad accogliere il pezzo di ghiaccio che Orlando faceva recapitare per tenere in fresco le bottiglie dell’acqua e il bottiglione impagliato del vino rosso. Nel soggiorno stava appeso un piccolo lampadario, nelle altre due stanze pendevano lampadine dalla luce scialbissima, non superavano i cinque volt. Le lenzuola erano pulite, ma per il Willy che ero diventato non bastavano.

In onore del figlio mia madre si era procurata caffè vero: lo vendeva a cucchiaini la grassona che aveva aperto un ingrosso con quanto marito, generi e nipoti riuscivano a rubare dagli autocarri degli enti assistenziali. Per mia madre, costretta a campare di baratti e di rammendi, di compravendite quotidiane e di stirate nei palazzi di via Umberto, già quella manciata di caffè aveva rappresentato un esborso. Nemmeno il suo aroma servì, tuttavia, a cancellare l’oppressione della povertà che all’America avevo scordato.
- Mino, problemi con la tua famiglia? - Mia madre aveva aspettato che finissi il caffè.
- Ma come vi vengono in testa pensieri simili?
- Uno che arriva dopo un’eternità senza moglie e figlio al seguito, e senza neppure una foto della moglie e del figlio, ha in mente tutto tranne che la propria famiglia.
Sbottai senza cautele. - Se n'è andata. Rosa se n'è andata...
- E il bambino, tuo figlio?
- Sta con lei a Los Angeles.
- A... che cosa?
- Con sua sorella ha aperto una sartoria -.
Evitai di raccontare che Rosa aveva preso a lavorare nel cinema: nel giudizio di mia madre si sarebbe trasformata in una buttanazza peggiore della buttanazza di Centuripe, per la quale mio fratello Peppino quindici anni prima aveva perso la testa.
- Ma tuo figlio lo vedi? Turidduzzu come sta? Lo sa che è figlio a te, che noi siamo la sua famiglia?
- Mamma, l’America è grande, i viaggi sono complicati. Con Sal ci vediamo quando è possibile, spesso...
- Che nome è Sal? Qui non si usa.
- È il diminutivo di Salvatore, all’America si usa così -.
Potevo dirle che sul nome di nostro figlio Rosa aveva impiantato la prima lite? Che dall’oggi al domani Turidduzzu era diventato Sal per cominciare a cancellare ogni traccia di sicilianità?
- E tu sei rimasto senza nessuno?
- Sì -.
Ancora oggi ignoro perché quella mattina non svelai a mia madre di Judith e dell’altra mia figlia Sarah.
- Ma un uomo ha bisogno di una donna.
- Mamma, non sono così vecchio. C’è tempo.
- Però non sei neppure così giovane. Devi trovare una brava carusa, con la testa a posto, possibilmente di queste parti. E poi ti devi mettere a fare figli. I figli sono una benedizione divina, - mia madre ebbe un’espressione poco convinta, - ma soprattutto danno forza. Bisogna essere numerosi per difendersi e farsi rispettare. In fondo, a voi altri Melodia essere sette è servito... Se ci fosse ancora Peppino...

Mia madre era una Pasqua: progettava pranzi e cene, faceva la lista di quelli da invitare e la cambiava immediatamente. Mi chiedeva consiglio su dove mettere il tavolo, che si sarebbe fatta imprestare da comare Marietta, unica non parente ammessa al pranzo grande, quello con i fratelli, le sorelle, i cognati, le cognate, i quindici nipoti.
Io avevo già voglia di scappare, ma mia madre era persuasa che fossi rientrato per sempre.
Cominciai con il dirle che dovevo assentarmi per affari, quindi era meglio programmare il pranzo grande al mio ritorno. Come, neppure il tempo di arrivare e te ne vuoi andare? Me lo disse tirando su con il naso per trattenere le lacrime. Allora, con l’aria di svelare il segreto più importante del mondo, sillabai Charles-Lu-cia-no.
Anche lei lo conosceva di fama: quello che aveva fatto più fortuna di tutti all’America...
Aggiunsi che lavoravo per lui, che mi aspettava a Napoli. A Napoli? ripeté sconcertata dalla distanza e dall’importanza che mi conferiva l’incontro con Luciano in una città così lontana.
Fui commosso nel vedere mia madre, capace di comandare a bacchetta figli, generi, nuore, nipoti, amici e nemici, tanto disarmata di fronte alle mie menzogne, anzi tanto compiaciuta per il figliuolo che concludeva affari con Luciano. Le detti un biglietto da cento dollari per attutire il rimorso.

Orlando comparve alle dieci in compagnia di uno che vendeva furbizia un tanto al grammo: era tozzo, calvo, con cespugli di peli in libera uscita da narici e orecchie. Lo stazzonato vestito bianco gli cascava addosso, dalla tasca della giacca si affacciavano tre cappucci di penne stilografiche. Mi ricordò Lansky: anche lui aveva la fissa delle penne nel taschino, ma nient’altro lo univa al minchionazzo che mi si parava davanti. Io stavo a torso nudo con i pantaloni del pigiama. Incurante del mio fastidio, Orlando annunciò di essere onorato di poter presentare l’avvocato Longhitano, il quale di primo mattino aveva insistito per parlarmi.
L’avvocato puntò dritto sul motivo della visita. Per rendermi partecipe dell’affare di Stato si avvicinò.
Fui avvolto da una nuvola di aglio e di acqua colonia da una lira al bottiglione sulle bancarelle del mercato di piazza Carlo Alberto.
- Mi risulta che lei è in contatto con mister Luciano.
Orlando gongolava di avere un simile fratello; io, all’opp-sto, ero frastornato dalla rapidità con cui si diffondevano pure le notizie più riservate.
- Ho lavorato per lui a Nuovaiocche... - risposi.
- Adesso, però, mister Luciano risiede a Napoli, - l’avvocato ebbe un piccolo sbuffo: a lui non la si contava.
- Potrebbe avere la gentilezza di fargli giungere una comunicazione?
L’avvocato pareva dipendere dalla mia risposta. Ma entrambi sapevamo che era una solenne messinscena.
- Gli amici che mi pregio di rappresentare - proseguì - sarebbero felici di poter spiegare a mister Luciano un progetto riguardante la nostra amata e vilipesa Sicilia.
L’avvocato cercò di trasmettermi il suo turbamento di facciata.
- Le migliori intelligenze di questa povera terra - disse - sono impegnate a disegnare un futuro di gloria e di libertà. Noi riteniamo che una personalità eminente come quella di mister Luciano potrebbe dare un apporto importante...
L’avvocato si bloccò per sincerarsi che il suo appassionato discorso mi avesse coinvolto. Avrebbe fatto volentieri a meno di doversi spiegare con uno di quarta fila come me, tuttavia i maligni scherzi della democrazia lo obbligavano.
- Inutile aggiungere - disse con aria saputa - che dopo la semina viene il raccolto; che i promotori della riscossa dovranno poi assumersi l’onore e l’onere di guidare la nazione siciliana. Confido che tale iniziativa possa ricevere l’attenzione che merita da mister Luciano. I miei amici, la mia modesta persona sono prontissimi a raggiungere mister Luciano ovunque lui decidesse di darci udienza. Per qualsiasi cosa, Orlando sa dove trovarmi.

E fu Orlando, appena l’avvocato si congedò, a completarmi il quadro.
Longhitano militava nel movimento indipendentista, parso imbattibile fino al ‘45, ma in seguito mollato dagli Stati Uniti e dagli uomini di rispetto, che gli avevano preferito la nascente Democrazia cristiana. Nelle elezioni regionali della primavera ‘47 il movimento aveva raccolto consensi inferiori alle previsioni. Tutti lo davano in declino, però l’avvocato e i suoi amici speravano che un eventuale interessamento di Luciano consentisse di rispolverare il vecchio sogno di staccare la Sicilia dall’Italia e se possibile di attaccarla all’America. Orlando ne era entusiasta, d’altronde viveva alla perenne rincorsa di un colpo di scena in grado di ribaltargli l’esistenza. In questo eravamo identici, lui però lo ignorava.
A differenza sua, io inseguivo tranquillità e sicurezza. Nelle rivoluzioni i night club non funzionano. Era l’insegnamento di Luciano, di Costello, di Adonis: li avevo visti appoggiare sempre le istituzioni, al massimo brigavano per cambiarne i rappresentanti.
Il veloce colloquio con l’avvocato Longhitano rafforzò il convincimento che Catania non s’adattasse a me.
La città della mia infanzia aveva resistito alla guerra, tuttavia aveva perso la patina di magia. Era povera, sporca, incattivita. Catapecchie e palazzi di pregio stavano addossati facendosi sfregio a vicenda. Gli abitanti s’inventavano al mattino una parte, che la sera mettevano da canto, pronti a ricominciare con il nuovo giorno.
Rifeci la passeggiata dalla stazione fino a piazza Duomo, ma non c’era più mio padre, non c’era neanche l’uomo delle bibite. La brezza del mare sollevava le cartacce, la polvere delle macerie, i miei tormenti. Non ero tornato per essere circondato dallo squallore. In fuga dal passato non misi piede in via Umberto, a piazza Carlo Alberto, in via Etnea, ai Quattro Canti. Troppo stridente il contrasto con quei giorni in cui la speranza aveva preceduto ogni passo. Ero stato persuaso che grazie al dono dell’orecchio assoluto elargito da Madre Natura mi sarei potuto cavare qualsiasi sfizio con la stessa facilità con cui ripetevo al piano qualsiasi motivo ascoltassi. Presunzione e musica risultavano talmente spontanei da farmi respingere ogni invito allo studio, all’impegno, alla frequentazione di un conservatorio. Non mi avevano pronosticato che con le mie mani sarei arrivato a esibirmi anche alla Scala? E un paio di quei profeti non si erano prenotati per un posto nel palco? Allora perchè faticare?
E invece non ce l'avevo fatta a suonare manco nella band dell’Hollywood.
Avevo trascorso quindici anni al piano bar fra il bancone delle bevande e il fumo delle sigarette dei clienti.
Mai avrei letto "Willy Melodia e la sua orchestra" sulla grancassa nel salone delle feste.
Eppure nei commenti della gentuzza, nei sussurri che mi accompagnavano appena mettevo il piede fuori dalla porta di casa venivo giudicato un vincitore. Per impedire alla verità di balzare fuori assieme alla delusione, vivevo rinchiuso nel fortino di via D’Amico. Mi sentivo protetto, al sicuro dalle trafitture dei ricordi, tuttavia mangiavo pane e noia dal risveglio alla buonanotte.

Mi spostai a Taormina. Era bellissima. L'autunno l’aveva svuotata, resistevano soltanto gli ufficiali americani alloggiati al San Carlo con le fidanzate italiane. Nessuno in albergo mi riconobbe, io stesso non scorsi facce note. Nell’immenso salone dominato dall’imponente lampadario in ferro sbalzato, lo Steinway nero, sul quale mi ero esibito per tre anni fino al mezzogiorno della fuga nella primavera del ‘31, era stato sostituito da un Hermann a coda di mogano splendente. Nella Traversa degli Ebrei era sbarrata la botteguccia di zu Gino, il calzolaio che a sua insaputa aveva stravolto la mia esistenza: sarebbe bastato che non fosse stato il cognato di Enzo Giaconia o che questi non avesse cercato rifugio da lui... Provai a immaginare che cosa sarebbe avvenuto senza Giaconia, senza il suo assassinio da parte degli angeli custodi di Nino Puglisi sotto i miei occhi attoniti di testimone involontario. Non ci sarebbe stata l‘America, non ci sarebbero stati Sal e Sarah, Rosa e Judith, Luciano e Costello, Anastasia e Adonis, Lansky e Genovese, mi sarei perso Ben Siegel e tutte le ragazze che mi avevano circuito convinte di sedurre l‘uomo delle stelle e chissà quante ne avevo deluse; non avrei fatto l’esame a Sinatra né Ellington avrebbe intonato per me Mood Indigo. Non riuscivo a decidermi tra il dare e l’avere. Ero impaurito dalla troppa Storia sfilata dinanzi a me, considerandomi fuori posto già per la cronaca.

L’unica alternativa a un simile trituramento di palle diventava passeggiare per Taormina alla ricerca della sede del futuro night. Mi aggiravo estasiato lungo i cunicoli del centro; nella pasticceria a metà di corso Umberto ordinavo caffè e cannolo di ricotta, seguito dagli sguardi curiosi di quanti avevano appreso che ero il proprietario del portento posteggiato all’inizio di viale San Pancrazio. Lì avevo rimediato una stanza in casa del cavalier Melchiorre Di Prima, impiegato del comune.
Avevo letto il suo annuncio nella botteguccia accanto alla pasticceria: prestavano assistenza per il disbrigo pratiche, ospitalità a buon mercato e posti sull’autobus per Roma, si conoscevano giorno e ora della partenza, l’arrivo stava nelle mani del Signore.
Con il cavaliere Di Prima avevo inventato di essere un emigrante rientrato dall’America. In fondo era vero, benché non fosse tutta la verità. Nessuno mi aveva collegato al giovane pianista del San Carlo scappato dopo l’omicidio del cognato di zu Gino.
Camminavo a piedi, battevo vicoli, viuzze. Le poche case padronali erano contornate da casupole prive di luce elettrica. Ignoravo ciò che cercavo, ma intuivo che appena l’avessi avuto sotto gli occhi l’avrei identificato senza esitazione.
Accanto a piazza del Carmine, dove la stradina Badia Vecchia s’accartoccia su se stessa, entrai in un cortile con tre porte malandate chiuse dal catenaccio. Eccolo il mio Paradise: fantasticando sul passato incompiuto avevo, difatti, deciso che il night avrebbe portato il nome del primo locale americano in cui avevo suonato, quello di Nic Sperandeo a Chicago. Dopo tante delusioni, ritenevo di aver diritto al mio piccolo paradiso.

Misurai in lungo e in largo il cortile: la folata di vento smosse la campanella sul muro, residuo di chissà quali accadimenti. Mi obbligai a ritenere di buon auspicio gli inattesi e casuali rintocchi. Immaginai il cortile pieno di fiori, ricoperto dal pergolato, il pianoforte nell’angolo, i tavolini in ferro brunito con le tovaglie candide a far risaltare le gambe robuste. Avevo il cuore scavallante: avvertivo di essere al termine della notte, magari avrei rinvenuto la mia America a quattro passi da via D’Amico.

La ricerca del proprietario mi condusse nella merceria in fondo alla strada. La famiglia La Ferla, padrona del complesso, si era trasferita in Argentina nel gennaio del ‘40. A Taormina era rimasto un nipote: faceva il carpentiere nel cantiere vicino all’abitazione del cavalier Di Prima. Ignorava se gli zii avessero intenzione di vendere. Avrebbe scritto e atteso la risposta. Ci accordammo su una mia ricomparsa a gennaio. Altri ritmi senza teleselezione e cellulari.
La visita al fabbricato confermò l’impressione originale. Dietro le tre vecchie porte cigolanti si aprivano spazi lussuosi, al momento suddivisi in stanzoni e stanzine. Al catasto ci procurammo la piantina, la portai a Napoli.
Luciano accolse con freddezza sia la piantina, sia il mio resoconto. Mi si asciugò l’entusiasmo, fui punto e daccapo con quanto mi riservava il destino. E dire che per far prima non ero nemmeno rientrato a Catania: avevo telefonato alla tabaccheria di via Francesco Crispi affinché avvertissero mia madre che il programma era cambiato. Avevo viaggiato tutta notte pur di raggiungere in fretta Napoli: valutavo di poter suscitare l’interesse di Luciano per un investimento, che consideravo più sicuro della morte.
Manco per idea. Luciano s’era fatto scettico sull’Italia.
- Fino ad aprile, - sentenziò, - non se ne fa niente.
- Ma siamo appena a ottobre...
- Appunto.
- Pensavo di chiudere per gennaio. Non vorrei che ce lo portassero via.
- Se non è questo posto, sarà un altro. Non credo che pagando in contanti avremo problemi di scelta.
La mia espressione parlava da sola.
- Willy, l’epoca è di grandi mutamenti. Io non voglio espormi, se non ho le spalle coperte. Cioè, voglio vedere chi vince le elezioni di aprile. I tuoi amici americani sono impegnatissimi a sbagliare ogni mossa.
I miei amici americani? Lo guardai sbigottito.
- Hanno deciso d’impiegare quel carusazzo di Giuliano in funzione anticomunista. Giuliano aggredisce, spara, ammazza e i rossi aumentano i consensi. Basta vedere il bordello che hanno montato dopo Portella della Ginestra. Avevano mandato un bigliettino a Giuliano con l’ordine di spaventare i contadini che andavano a festeggiare il 1° maggio. Si erano, però, dimenticati che il loro cow-boy è un secondo elementare, con la lingua italiana non ha una grande dimestichezza. Giuliano ha interpretato il bigliettino a modo suo: la mitragliatrice Breda è stata puntata sulla folla e chi s’è visto s’è visto. Con questi metodi di strada ne fanno poca sia lui sia i suoi protettori, un’accolita di massoni e di fascisti ripuliti. Non occorre un genio per comprendere che il terrore non crea amici, anzi fa crescere il numero dei nemici.
Pensai all’avvocato Longhitano, ma chi s’azzardava a riferirne a Luciano? Charlie cercava il minimo pretesto per scaricare su di me il malumore che lo inacidiva.
- Te l’avevo anticipato che i fratelli Dulles avrebbero combinato casini a non finire. La loro agenzia ancora deve nascere e già il buongiorno si vede dal mattino. Per fermare i comunisti bastano gli amici di Palermo, non ha senso impiegare uno senz’arte né parte come Giuliano: dovrebbero sapere che poi sangue chiama sangue. E quando bisognerà chiudere il capitolo, perché un bel giorno il capitolo andrà chiuso, che cosa faranno? Già adesso è impensabile che uno come Giuliano possa finire vivo nelle mani degli sbirri o, dio ce ne scampi e liberi, in un’aula di tribunale...
A questa profezia seguì l’invito a pranzo. Raggiungemmo una bella veranda allungata sul mare. Luciano consultò accuratamente il menù prima di chiedere due uova alla coque, carciofi arrostiti sulla brace, una pera cotta, la bottiglietta d’acqua minerale Evian: mi confidò, soddisfatto, che la prendevano apposta per lui e la pagava più di un vino di qualità. A differenza sua, io ci detti dentro dall’antipasto al dolce. Il mio appetito divertì Luciano. Mi dette altre centomila lire, s’informò se avessi impegni per i prossimi mesi. Non voglio che t’arrugginisca: lo disse con il mezzo sorriso che gli storceva la bocca, ma non era una battuta. Avrebbe fatto qualche telefonata per scovare a chi occorresse in Sicilia un bravo pianista.

Al momento dei saluti buttò lì che, più di un night, lo convinceva l’apertura di un ristorante con un pianoforte d’accompagnamento. E indovina, disse, chi penso di mettere al piano?
Gli lasciai il numero della tabaccheria di via Crispi, rassegnato alla permanenza in casa di mia madre. Perciò me la presi comoda. Da quando ero rientrato avevo persino scordato com’era fatta una femmina. La cassiera della stamberga nei pressi di Sala Consilina aveva colpito la mia fantasia. Ci ripassai. Tre giorni di corteggiamento e la Delahaye servirono allo scopo. La cassiera si dimostrò all’altezza, io me la squagliai prima che i maschi del luogo s’incazzassero per l’invasione.
Ritornai a Taormina dal cavalier Di Prima per un’ultima boccata d’aria in previsione dei pranzi e delle cene di Catania.
Passavo dal cortile di Badia Vecchia mattina, pomeriggio e sera, controllavo gli effetti della luce, annusavo la brezza risalente dal mare. Forse aveva ragione Luciano: con quegli spazi il ristorante aveva un senso. Nell’intervallo delle visite scrissi a Sarah, a Sal, anche a Rosa, cui annunciai per fatto il Paradise di Taormina. A tutti fornii l’indirizzo di mia madre nella speranza di una risposta.
Scrissi pure a zia Bessie, che aveva accettato di crescere Sarah a Nuovaiocche per amore di sua nipote Judith, la mamma di Sarah; nella sua busta aggiunsi una banconota da venti dollari.
In via D’Amico furono quindici giorni di mangiate, che lasciarono i partecipanti più inveleniti di quanto non fossero stati prima di mettersi a tavola. Forse avevo sbagliato io nell’avvalorare la convinzione generale di esser tornato pieno di piccioli e di disponibilità a spenderli, però non era possibile che tutti si chiedessero che cosa io avrei potuto fare per loro e nessuno che si ponesse la domanda opposta: che cosa lui poteva fare per me? Di conseguenza scontentai parenti e conoscenti: Mino è santo che non suda, fu il commento unanime, neppure pronunciato sottovoce. D’altronde, aggiunse Rolando e a turno lo copiarono gli altri, uno che lascia all’America moglie e figlio per tornarsene in Sicilia tanto giusto non dev’essere.

A liberarmi dall’impaccio provvide una telefonata da Palermo: il padrone di un ristorante, il Trocadero, voleva aggiungere un pianoforte in prossimità delle feste natalizie. I soldi erano tanti, centomila al mese, al punto che sospettai lo zampino di Luciano per farmi digerire il rinvio ad aprile del nostro progetto su Taormina.
Prima di partire entrai nella libreria di via Etnea dirimpetto alla villa Bellini. Acquistai tre libri sui paladini di Francia. Li portai a mia madre: si commosse fino alle lacrime. Le storie di Orlando e di Rinaldo, di Carlo Magno e di Gano di Magonza erano la sua passione. Da bambini ogni sera ce le raccontava sfogliando l’unico libro di casa nostra, una storia dei paladini, eredità del padre. Dopo averli sfogliati mia madre riavvolse i libri nella carta della libreria e li ripose sulla mensola accanto all’altro e alla bottiglia dell’olio. A quel punto rinunciai alla sorpresa che avevo preparato per lei: un biglietto da cento dollari dentro ogni libro. Per paura che non se ne accorgesse, li porsi direttamente. Furono altre lacrime e benedizioni.






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